Cento anni fa nasceva il PCI, il più grande partito comunista d’Occidente che, con le sue specificità italiane, seppe schierarsi dalla parte della democrazia in Italia dando un contributo fondamentale alla lotta antifascista, ma che mantenne sempre quell’ambiguità di fondo con il legame, mai sciolto del tutto, con quel sistema comunista mondiale che faceva capo a Mosca e che aveva l’obiettivo della fuoriuscita dal capitalismo con mezzi antidemocratici. Quando, percependone la caduta rovinosa, una parte del PCI avviò la svolta di Occhetto, un’altra parte, compresi alcuni dirigenti che la appoggiarono, ostacolò quel generoso tentativo di discontinuità volto ad aprire un nuovo inizio, una nuova fase riformista e di sistema generale in Italia. Costoro, senza voler minimamente dare conto delle ombre del passato, lasciarono che queste ombre si allungassero, come una pesante ipoteca, sulla futura “discontinuità nella continuità”. Quelle lacerazioni nella sinistra, dentro e fuori dal PCI-PDS-DS-PD, non si sono mai sanate e anzi, hanno mantenuto il loro carattere ambiguo, confondendo le acque e bloccando con ogni mezzo quel passaggio di sistema che dalla 1° repubblica immobilizza l’Italia e oggi addirittura, dopo la sconfitta nel referendum del 2016 che avrebbe consentito un approdo verso un sistema maggioritario stabile, la riconsegna a un passato paludoso, fermo, ostaggio di velleità populiste e conservatorismi convergenti da più parti politiche e con prospettive riformiste ridotte al lumicino.
Enrico Borg