Se l’uguaglianza di genere diventa disuguaglianza

Negli ultimi giorni si è riacceso il dibattito sulla parità di genere, in particolare sulla presenza delle donne negli organi di rappresentanza e decisionali all’interno di uno dei principali partiti politici italiani: il Partito Democratico.

Enrico Letta, infatti, da nuovo Segretario Nazionale ha subito fatto proprio il tema dell’uguaglianza di genere, anche a valle delle proteste e delle polemiche montate all’interno del partito per l’assenza di donne del Pd tra le fila del governo Draghi. Sono stati così nominati due vicesegretari – una donna e un uomo – ed è stata costituita una segreteria nazionale con una composizione che rispetta la parità di genere (otto donne e otto uomini). Fin qui tutto bene, un chiaro messaggio sulla necessità di cambiamento e di rinnovamento.

Ciò che ha suscitato qualche perplessità – e non pochi malumori – è stata l’inusuale richiesta avanzata dal segretario ai due capigruppo parlamentari di cedere il passo a due colleghe, vista dai più come un tentativo – a mio avviso un po’ maldestro – di mutare gli equilibri all’interno dei gruppi parlamentari e renderli più confacenti alla linea del partito, con buona pace del principio dell’indipendenza e dell’autonomia della rappresentanza politica – l’istituzione giuridica a cui è affidato il compito di realizzare un regime politico democratico – da istruzioni puntuali, sancita dall’articolo 67 della Costituzione. 

Verrebbe da chiedersi, lecitamente: perché un’incursione di questo tipo sotto il vessillo della parità di genere? Perché, allora, non strutturare l’intera segreteria nazionale con una composizione tutta al femminile? O ancora, perché la necessità di nominare due vicesegretari anziché una sola vicesegretaria?

Il tema della parità di genere non può e non deve essere ridotto ad una mera azione di ripartizione delle posizioni disponibili ricercando un punto di equilibrio attraverso la suddivisione in parti uguali. Né può essere in alcun modo strumentalizzato ed utilizzato come un’arma da brandire per raggiungere secondi fini. Garantire alle donne la piena ed effettiva partecipazione e pari opportunità di leadership a tutti i livelli del processo decisionale nella vita politica, economica e pubblica, significa adottare e rafforzare politiche tangibili finalizzate a promuovere ed accrescere la consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del controllo sulle proprie azioni e sulle proprie decisioni. Significa predisporre e fornire gli strumenti e le opportunità uguali per tutti e, soprattutto, le tutele necessarie per concorrere ed emergere, dando così piena attuazione al principio della meritocrazia che nulla ha a che vedere con la distinzione di genere.

La parità di genere è un problema culturale e rappresenta un’ardua sfida per il Paese. È sulla cultura in primis che bisogna agire per porre fine ad ogni forma di discriminazione e di violenza. Pensare di risolverlo affidando ruoli e responsabilità sulla base dell’unico requisito richiesto, quello di “essere donna”, non soltanto risulta offensivo per le ragioni di cui sopra, ma rischia da un lato di limitare l’importanza ed attenuare la gravità del problema e, dall’altro, di ingenerare con il tempo nuove disuguaglianze. Favorire e agevolare un maggiore coinvolgimento delle donne nel processo decisionale può certamente rappresentare, oggi, un segnale epocale di svolta; di certo non rappresenta la soluzione.

Gianvito Tumbarello

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