La maschera e l’identità

Anche se, come sostiene Alessandro Pizzorno, identità è un termine dal quale è meglio, quando possibile, tenersi lontani, è indiscutibile che esso sia diventato un protagonista del discorso politico.

E, allora, proprio per questo, conviene affrontarlo seriamente e dedicargli la dovuta attenzione. A questo certamente può contribuire la lettura del saggio su “la maschera e l’identità” pubblicato in calce al suo più recente volume (Alessandro Pizzorno, Il velo della diversità, Feltrinelli, 2007) e accompagnato da un importante dialogo con Roberta Sassatelli. È una lettura particolarmente attuale in questa fase di ridefinizione dei soggetti politici.

Molti – soprattutto a sinistra – fanno riferimento all’identità come a un processo di congiungimento con una realtà passata, metafore genetiche, ricorso al dna e alle radici si sprecano. Ma Pizzorno criticando e opponendosi a questa “inflazione identitaria” che spera di ricomporre ciò che sta dissolvendosi, propone un percorso diverso, scrive “quando l’identità personale ancorata al passato dà all’io che decide una sempre minore sicurezza di essere riconosciuto dalle persone in mezzo alle quali egli deve agire, allora vengono ricercate identità nuove, basate su destini futuri in comune”. Insomma, bisogna cercare “some other kind of otherness” dice citando il poeta Auden. Indossare una nuova maschera e farsi riconoscere attraverso questa.

Al centro del ragionamento sull’identità, vi sono quindi i percorsi di identificazione e distinzione, del riconoscimento e dell’occultamento. L’identità è di per se stessa distinzione e per mantenersi deve mirare alla coerenza delle scelte nel tempo. Conviene citare direttamente Pizzorno: “l’idea di riconoscimento, insomma, ci avvicina alla realtà, esperita o osservata, della vita dell’entità collettiva, non fatta semplicemente di folle e moltitudini, ma, appunto, di persone che sono orgogliose di sapersi riconoscere, anche nella virtualità di un’appartenenza lontana.”

Egli, quindi, suggerisce di “rinunciare alle grandi mappe e rivolgersi invece a rintracciare sentieri nel bosco che conducano a radure minori dove non si incontrano gli elefantiaci sistemi o le cosmogoniche narrative, ma piuttosto le forme minime della socialità interpersonale.”

Come ha scritto Roberta Sassatelli, per Pizzorno, “l’identità non è un espediente, un mezzo per raggiungere uno scopo, e neppure un fine o un bene da massimizzare … l’identità è la sostanza e il prodotto dell’azione sociale … la maschera è un modo per mettere a fuoco l’idea che l’identità è una “continua, concertata, realizzazione sociale” e non un gioco di gestione delle impressioni. E’ un processo di apprendimento, di negoziazione della realtà: impariamo a essere ciò che siamo, e più che interpretare una parte, utilizziamo ogni possibile occasione – ogni possibile maschera – per capire in che modo è opportuno, giusto, naturale che una persona come noi si comporti.”

Parlando della maschera, quarant’anni dopo aver scritto il saggio di cui pubblichiamo un piccolo stralcio, Pizzorno puntualizza: “all’inizio la maschera la trovi in famiglia. Tu credevi che nessuno avesse la maschera. Poi ti accorgi che gli altri se la mettono. Ne sei osservatore e attore. Cerchi di capire cosa c’è dietro a quella che portano gli altri, e insieme cerchi di capire quale sia quella che meglio serve a te per proteggerti dagli altri. E te la levi e te la rimetti. E quando sei adolescente, e sei incerto tu stesso su cosa ci sia dietro al tuo cercare maschere da indossare, e sei incerto su cosa ci sia veramente che faccia conto di nascondere, cerchi la maschera più irsuta e apotropaica possibile, oppure la più festosa e cerimonialmente ingannatrice. Tieni gli altri a distanza, mentre ti guardi un po’ alla volta crescer dentro la maschera, che solo in parte ti costruisci, ma che poi, volente o nolente, a un certo punto, ti vedrai costretto a indossare.”

Per Pizzorno inoltre “il significato delle mie azioni non è di acquisire utilità ma di assicurarmi riconoscimento” e l’identità è frutto del riconoscimento. Quindi se voglio rappresentare devo riconoscere, attribuire cittadinanza o legittimità. Ne consegue che la capacità di rappresentare interessi è strettamente legata alla capacità di riconoscere, attribuire un’identità, una maschera.

È chiaro che sul piano del discorso politico si tratta di assumere un punto di vista nuovo attraverso il quale si avanzano proposte, si impostano comportamenti, e tra questi anche quelli che rientrano nella molto ambigua categoria della comunicazione.

Riconoscere, riconoscersi, farsi riconoscere, cioè indossare una maschera, è anche e soprattutto un modo di comunicare con gli altri costruendo, per sé e per gli altri, un’identità che a sua volta, circolarmente, appare come condizione della comunicazione.

Quindi, comunicare anche in/la politica – soprattutto in un momento di costruzione di identità nuove – significa comprendere che maschera viene indossata e, soprattutto, decidere che maschera indossare cioè come costruire processi (consapevoli) di riconoscimento, distinzione e identificazione.

PS: 27 agosto 2013 EUROPA Quotidiano – L’importanza della maschera

Lezione di politica. In un testo ripubblicato di recente (anno 2013 nda) il grande sociologo Alessandro Pizzorno si scaglia contro l’«inflazione identitaria» e l’importanza dell’essere riconoscibili e riconosciuti

Mario Rodriguez

Un commento Aggiungi il tuo

  1. Dario Forti ha detto:

    Bello e molto chiaro il commento che Mario Rodriguez fa ad un Pizzorno d’annata. Oggi, ancor più che in passato, non sono però convinto che il concetto di maschera sia il più appropriato per parlare di identità e alterita’ (l’otherness del mio amato Auden), in quanto fa pensare che dietro alle diverse maschere indossate ci sia un volto stabile, identitariamente definito. L’uso dell’immagine della maschera e tipicamente sociologico, cosa assolutamente rispettabile, ma relativa. Vedendo le cose con un’ottica leggermente diversa, quella della psicologia sociale, mi piace di più l’immagine di Zelig, del camaleonte, che si adatta ai contesti e alle relazioni, non del tutto consapevolmente e intenzionalmente. A differenza della maschera che decidi tu quando indossarla e quando toglierla. Il che vale per gli individui ma, per tornare allo spunto iniziale, anche per i movimenti politici. Del resto l’espressione, che a Mario piace molto, di ossessione identitaria (che è dell’antropologo Francesco Remotti), aiuta molto a comprendere la natura non solo strategica della ricerca di identità…

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