Partecipazione uguale Democrazia?

Per lavoro mi sto occupando di piattaforme informatiche che consentano la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica di una regione. O meglio, di EUSALP, la “Strategia dell’Unione europea per la Regione alpina”. Un’area di ottanta milioni di abitanti che comprende sette Stati (di cui cinque UE) e quarantotto regioni. In quest’ambito la Commissione Europea vuole sperimentare un sistema che permetta a tutti i cittadini di intervenire nelle decisioni, nelle scelte, nella valutazione di progetti o direttive assunte dagli organi statutari della Strategia UE. Senza addentrarmi nella realtà della Strategia, una “cosa” quanto mai aleatoria, generata dalle tecnocrazie europee (sia pure sulla spinta delle effervescenti regioni dell’arco alpino), vorrei condividere alcune riflessioni sul rapporto tra democrazia e partecipazione. Altra premessa, io sono esperto di politiche UE, di sistemi di governance di strutture comunitarie, ma non sono uno “scienziato politico”, quindi espongo riflessioni non accademiche.
La Commissione Europea – forse alla ricerca di un sostegno popolare in mancanza di un sostegno reale degli Stati membri – lavora da anni su come coinvolgere i cittadini nelle scelte e finanche nell’attività sua e dei suoi gruppi di lavoro. Abbiamo tutti chiaro che la democrazia occidentale sta attraversando da qualche decennio una crisi profonda. Illustri scienziati della politica, storici ed esperti consultati dalla Commissione sono concordi su alcuni punti.
Primo. La crisi riguarda soprattutto le democrazie occidentali. In modo diverso, Stati Uniti e Europa sono travagliati dal sentimento che il patto sociale si stia sgretolando. Intendendo per patto sociale l’accordo che lega i cittadini al proprio governo, che in cambio garantisce loro protezione dai nemici esterni e un grado variabile di protezione sociale interna. L’alterazione di questo rapporto nasce ultimamente soprattutto – dicono tutti – per effetto della globalizzazione che in Italia ha significato soprattutto delocalizzazione selvaggia di processi produttivi alla ricerca di un profitto sempre maggiore. Di fronte a questa esplosione incontrollata di conseguenze a tutti i livelli, i cittadini hanno scoperto che i propri governi nazionali non erano in grado di proteggere il loro lavoro, e hanno cercato protezione (almeno teorica) in leader e partiti politici, possibilmente nuovi e non compromessi con l’ideologia della globalizzazione. Cioè nei partiti populisti, in una logica di protezione del proprio giardino, indipendentemente dall’etichetta di destra o sinistra. In chi, come Trump negli USA, fosse in grado di promettere – almeno promettere – “prima i miei concittadini”. Gli altri? Che si arrangino.
Quindi, crisi delle democrazie occidentali. Il resto del mondo? Guardate le mappe del Democracy Index de L’Economist: non ci sono molte altre democrazie fuori dall’Occidente
(23 paesi su 167). L’India? Bah, per ora lo è, tecnicamente, ma, ripeto, andate a vedere le mappe e fatevi un’idea. Il Giappone? Appartiene alle democrazie occidentali? Generalmente si ritiene di sì, facendo parte del G7…
Secondo. Cosa comporta la rottura del patto sociale? Il disconoscimento della rappresentanza. In Italia come altrove (anche negli USA il sentimento contro “quelli di Washington” è molto diffuso) l’insofferenza per la classe politica, la cosiddetta “casta”, c’è sempre stata. Quello che è cambiato rispetto agli anni Settanta (tanto per dare una data) è il supporto mediatico a questa insofferenza. Con brutta parola, lo “sdoganamento” dell’insofferenza, sempre più bieca, cupa, volgare. Un piano inclinato che dalle televisioni private (“libere”, sic!) porta a Internet e ai social media: dalla semplice insofferenza per i nostri delegati, senatori, deputati, sottosegretari o ministri, all’odio vero e proprio, il passo è breve. Anche se ci sono voluti più o meno trent’anni. È così ovunque, non solo in Italia. Se no, la Commissione non avrebbe pensato che fosse urgente ovviare a questa situazione rischiosissima, lo sgretolamento del patto sociale.
Terzo. La partecipazione diretta dei cittadini, più o meno aggiuntiva (per ora non sostitutiva) degli organi rappresentativi, può essere la soluzione? Molti pensano che sia così. Che tutto nasca da un deficit di partecipazione. Perciò da qualche anno è tutto un fiorire di esperimenti, più o meno basati su Internet. Come la piattaforma Rousseau, o quella degli spagnoli di Podemos. O quella catalana di Decidim, da poco in uso al Comune di Milano. O esperimenti come la Convention Citoyenne pour le Climat voluta in Francia da Macron nel 2018, centocinquanta cittadini estratti a sorte per discutere e proporre soluzioni per fronteggiare il cambiamento climatico, le cui conclusioni però il presidente fatica a prendere in considerazione. Il problema è sempre lo stesso. Come si scelgono alcuni cittadini a “rappresentare” tutti gli altri? Per esempio, a sorte. Un sistema che molti esperti suggeriscono (non solo Beppe Grillo!). E gli altri cittadini? E’ pensabile trasformare un paese di sessanta milioni di abitanti come l’Italia o la Francia in un’agorà dove si decide tutti “in assemblea”? Utopia sessantottina? O ci si arriverà con la “Rete”, dove il voto è on line, istantaneo, ma soggetto a manipolazioni invisibili o hackeraggi di paesi lontani interessati a seminare il caos? Questo è il dilemma della cosiddetta “democrazia deliberativa”.
Per concludere, fatemi citare Polibio, storico greco del II secolo a.C. Lui pensava che i governi seguissero storicamente un ciclo inesorabile, detto “anaciclosi”: dalla monarchia all’aristocrazia fino alla democrazia e ritorno, più o meno. Dopo la democrazia, il ciclo prevede la “oclocrazia”, cioè il governo delle masse. Insomma, i populisti al governo (nel 2023?). Poco male, evviva l’alternanza! Dopo di loro un monarca ci salverà!

Raffaele Raja

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