Ma davvero il Piano è comunista?

No, non parliamo di Renzo Piano. Parliamo di un concetto che torna di moda (forse), almeno nel nome, ai tempi del Recovery Plan, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, o PNRR. Il Piano: un concetto ben noto agli architetti e agli urbanisti, ma diventato negli anni l’emblema di un modo di vivere.

A un certo punto della nostra storia l’idea che la vita, la politica, il destino di una nazione si potesse “pianificare” è diventato – non del tutto a torto – sinonimo di “comunismo”. Da un certo punto in poi, invece di collocare correttamente un certo uso distorto e totalitario della pianificazione nell’ambito storico del comunismo reale, si è preferito estenderne politicamente il significato attribuendogli genericamente un valore di un atto di sinistra teso a dirigere dall’alto tutte le fasi della nostra vita e a comprimere la libertà e la libera iniziativa dei cittadini.  Da quel momento il Piano è diventato un tabù, una parola e un concetto proibiti. Fuori moda, come le ideologie, anche questo un concetto diventato tabù dopo la caduta del muro di Berlino. Via allora al mercatismo, e via alla libera iniziativa dei privati, in tutti i settori, sanità inclusa, con l’idea che lo stato debba agevolare qualsiasi iniziativa privata. Pianificare? Horribile dictu! E così, via alle liberalizzazioni a tappeto, e fine di ogni politica industriale nazionale, di ogni capacità di indirizzo sulle priorità del Paese. Casualmente, negli ultimi venti anni di questa politica neoliberista (bipartisan!), l’Italia cresce del 7 per cento, mentre Francia e Germania tra il 20 e il 30 per cento. Paesi certamente non comunisti, ma in cui la presenza dello Stato (Francia) e dei Laender (Germania) è dominante. I settori industriali principali, le banche, le grandi aziende nazionali (automobilistiche in primis) sono tutti ambiti controllati più o meno direttamente dalla mano pubblica. E l’Italia? Basta che non si parli di Stato, o di Piano, e tutto va bene. Anche farsi comprare a pezzettini dai grandi player dei due grandi Stati europei: vedere alla voce “lusso”, con i grandi nomi italiani tutti in mano a gruppi francesi, e alla voce “Alitalia”, che prima o poi, ridotta a linea aerea sub-regionale finirà per quattro spiccioli in mano a Lufthansa. Ma basta che non si parli di Piano…

La conseguenza di questa premessa, cioè che il Piano non debba più esistere, è la mancanza di visione o prospettiva della politica attuale, e non solo italiana. Si dice da molte parti che ai nostri politici manchi una vision – in senso anglosassone – e che non sappiano vedere al di là della prossima competizione elettorale, sei mesi, un anno al massimo. Come si fa allora a costruire un paese degno di questo nome senza avere una prospettiva che vada al di là dei sei mesi-un anno? Facciamo tre esempi in cui il Piano invece diventa la chiave per il successo.  

Primo esempio. Da tempo la UE si è dotata di una struttura specifica per le analisi statistico-territoriali a supporto delle decisioni dei suoi diversi organi. Si tratta di ESPON (European Observation Network for Territorial Development and Cohesion), basata in Lussemburgo, che sviluppa analisi e studi soprattutto in campo territoriale. Bene, è stato appena lanciato uno studio che si chiama TEVI 2050, che si concluderà a metà del 2022, che deve prospettare scenari alternativi di sviluppo per le due Macroregioni europee dell’area Danubiana e di quella Adriatico-ionica. Gli scenari sono proiezioni statistiche ed econometriche tarate sull’anno 2050. Una prospettiva trentennale che consente ai decisori di “vedere” in sufficiente anticipo cosa succederebbe se si applicassero scelte territoriali ed economiche diverse su quei territori. In altre parole gli esperti di vari settori proveranno a ipotizzare – su basi scientifiche – quali potranno essere le conseguenze di decisioni prese oggi sulla vita di tutti di domani.

Secondo esempio. La Regione francese Rhône-Alpes, quella di Lione per intenderci, ha approvato nel 2014, dopo un anno circa di proiezioni di esperti su diversi scenari e valutazioni partecipate dai cittadini, un Piano “Montagne 2040”. Anche in questo caso sono stati prospettati scenari alternativi sui quali si è chiesto un parere ai cittadini “in progress”, cioè in corso di redazione del Piano. La montagna costituisce uno degli asset economici e territoriali più importanti per quella regione (comprende la Savoia e il Monte Bianco tra gli altri gruppi montuosi), e la Regione francese voleva indirizzare in modo consapevole le scelte dei governi regionali che si succederanno fino al 2040. 

Terzo e ultimo esempio. La UE, ancora lei. La sua programmazione economica e di distribuzione interna dei fondi da investire nei vari settori è da sempre basata su un bilancio settennale. Troppo complesso sarebbe farlo durare meno di sette anni, perché è sempre molto complesso riavviare la macchina ad ogni cambio di legislatura (che è invece di cinque anni), e quindi in qualche modo la programmazione vuole che si esca dal vincolo bilancio-governo. Cioè che si riesca ad attuare un programma che abbia una “visione” e che vada al di là del governo specifico che cambia ogni cinque anni. È un po’ la logica per cui il nostro presidente della Repubblica dura sette anni mentre i governi (sulla carta) durano cinque anni.  Ed è questa la logica del PNRR, cioè del Piano (ebbene sì, un Piano!) nazionale di ripresa e resilienza che dura dal 2021 fino al 2026. Un orizzonte che nel caso del governo italiano, come però nella generalità dei governi europei diversi da quello italiano, va al di là di quello del singolo governo. Ciò significa una programmazione (pardon, una pianificazione!) che deve essere bipartisan, che deve andare al di là della visione miope della politica di centrosinistra o centrodestra delle nostre classi dirigenti, perché deve compiere delle scelte fondamentali per l’avvenire del paese. Un po’ come quando fu scritta la nostra Costituzione, non per la destra o la sinistra, ma per tutta l’Italia. A questo serve un Piano.

Raffaele Raja

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