Forse Einstein aveva torto e la quarta guerra mondiale non si combatterà con la fionda. La terza guerra mondiale infatti non sarà in grado di distruggere né il pianeta, né tanto meno la civiltà che lo abita, nonostante l’impiego delle armi atomiche, a cui seguiranno fall-out radioattivi ed epidemie: o almeno questo è quello che scrivono Elliot Ackerman e l’ex ammiraglio USA James Stavridis nel loro romanzo “2034”. Un libro, quest’ultimo, che potrebbe essere erroneamente scambiato per un airport-book, come ha fatto il sottoscritto, ma che in realtà ci descrive uno scenario di guerra intercontinentale del tutto plausibile e utile per comprendere il ruolo dell’Europa nell’attuale assetto geopolitico.
Nel romanzo, la Cina, ormai prima potenza economica mondiale, dotata di forze armate imponenti e tecnologicamente superiori a quelle americane, decide che è giunto il momento di annettere Taiwan. Invia quindi la sua flotta invisibile ai nemici grazie all’impiego della tecnologia stealth, a distruggere quella americana senza lasciarle la possibilità sparare neanche un colpo. Ma come? Grazie ai suoi hacker e alla sua superiore capacità di attacco informatico, in grado di accecare tutte le armi e i satelliti americani, la rete Internet e ogni comunicazione basata sull’elettronica. In questo modo i missili non partono più, le mail, le comunicazioni istantanee sono bloccate e alla Casa Bianca rispolverano i piccioni viaggiatori e i motociclisti portaordini come nella Prima guerra mondiale, mentre sulle navi sopravvissute all’incursione cinese si richiamano in servizio i pensionati in grado di ricordare l’alfabeto Morse e di far funzionare telegrafi e radiotrasmittenti di prima generazione, cioè non basati sull’elettronica. Stesso discorso per gli aerei, dove i sofisticati F35, in cui tutto funziona grazie a chip e satelliti, sono costretti ad atterrare per evitare il peggio, e vengono sostituiti dai vecchi Hornet F18, prima versione (1984), recuperati da musei aeronautici e set cinematografici, in cui molto funziona ancora su basi meccaniche.
Gli USA, di fronte all’aggressione cinese, e soprattutto alla prospettiva di essere catapultati al medioevo della civiltà e delle comunicazioni, reagiscono con l’arma atomica. Arma tattica, cioè limitata nella potenza e nel raggio d’azione, e quindi non strategica, ma pur sempre arma atomica. Con un vecchio sommergibile rimasto in funzione, lanciano la fatidica bomba su un porto militare cinese facendo strage di milioni di persone e di navi nemiche. La Cina ovviamente risponde con quella che in termini militari si chiama escalation, cioè lancia due bombe su due città medie americane, tra l’altro anche obiettivi militari, Galveston e San Diego. Anche qui milioni di morti e fall-out impressionanti. L’America deve reagire, puntando questa volta i suoi missili strategici a testata multipla contro tre città cinesi, fra cui Shanghai.
Come va a finire? Con una terza potenza atomica, l’India, che si intromette tra i due contendenti per dividerli e farli ragionare, proprio mentre il conflitto si allarga in modo inatteso ad altri teatri, ma senza che altri Stati si dichiarino alleati dell’uno o dell’altro. In pratica, la Russia agisce per suo conto perseguendo due distinti obiettivi: a est, taglia i cavi sottomarini del 10G (la rete più veloce e avanzata del momento), per danneggiare ancor più l’America; mentre a ovest, invade in pochi giorni le tre repubbliche baltiche che fanno parte della UE, cioè Estonia, Lettonia e Lituania, minacciando così l’Europa occidentale di azioni ulteriori. Qui il romanzo non si spinge oltre, essendo incentrato sull’area Indo-Pacifica e sulla sfida tra America e Cina. Al lettore non resta che dedurre quanto l’Europa sia nel frattempo diventata periferica per tutti i principali player mondiali: l’America, la Cina, l’India, e gli altri stati asiatici emergenti.
In breve, secondo gli autori (ma questo è un giudizio implicito, mai reso palese) l’Europa non può interessare ad altri che alla Russia, finalmente libera di dare corso ai suoi obiettivi imperiali di sempre: sbocco nel Mediterraneo, asservimento dei mercati occidentali, espansione della sua influenza a quello che Hitler, dalla prospettiva opposta, chiamava “spazio vitale” (Lebensraum). Un’Europa che non è più il centro del mondo è una prospettiva che oggi non riusciamo a cogliere, ma è già scritta nei numeri.
Ma come va a finire “2034”? Non voglio rivelare il finale, inatteso per noi che viviamo ancora nel 2021, ma vi dirò solo che la “Mutual assured destruction”, la MAD, teoria della distruzione atomica reciproca molto in voga negli anni Sessanta del XX secolo (e che Einstein aveva anticipato), non avrà luogo. Il mondo vivrà ancora, seppure in condizioni molto diverse dalle attuali. Ma cosa ne sarà dell’Europa? Il suo futuro non è descritto nel libro, che ne accenna soltanto nei termini che abbiamo visto. Ma si può desumere da molti segnali che sono sotto gli occhi di tutti. Quali, direte voi? L’America si sta ritirando dall’Europa, per concentrarsi sul suo scenario principale, l’Indo-Pacifico. Lo abbiamo visto dall’accordo “Aukus” tra USA, Regno Unito e Australia, siglato all’indomani della scelta australiana di rompere l’accordo con la Francia per la fornitura di sottomarini, preferendo quelli americani, a propulsione nucleare, quindi dotati di proiezione strategica più ampia della sola difesa delle coste. La Russia e la Cina spingono sulla cyberwar, la guerra informatica, alimentando schiere di hacker “di Stato” che si addestrano a violare server militari, inserirsi in infrastrutture strategiche, sabotare e ricattare. E’ della scorsa primavera l’attacco ransomware alla più grande rete di oleodotti texana, fornitrice di quasi il 50 per cento del fabbisogno della West Coast, per cui l’FBI ha apertamente chiamato in causa hacker manovrati dal potente servizio segreto russo, l’FSB. Altri hanno indicato la Cina, come mandante, mentre è certo che il colosso asiatico stia orientando sempre più il suo impetuoso sviluppo economico e tecnologico verso il settore militare. Non mi dilungo su quello che è successo in Europa (e nel mondo) sul caso Huawei, accusata di fare della sua rete 5G la longa manus del governo cinese.
Resta il fatto che la domanda da porsi è: ma in questo scenario mondiale, che peso ha l’Europa, qual è il suo ruolo? Ormai dipende in tutto e per tutto da fornitori extra-europei (dalle mascherine chirurgiche al 5G, ai semiconduttori di cui Taiwan da sola produce il 60 per cento), e non ha una visione politica e militare comune. Per di più l’edificio unitario si sgretola ogni giorno sotto i colpi di un’opinione pubblica disamorata e preda delle pulsioni populiste e nazionaliste, e di governi apertamente anti-europeisti come l’Ungheria e la Polonia (si pensi alla recente sentenza della sua Corte suprema che afferma la supremazia della legislazione nazionale su quella comunitaria).
Qualcuno oggi si rende conto della sfida? Forse l’idea francese di una difesa comune europea, benché dettata dall’innata tendenza della Francia a strafare, e al disperato tentativo di Macron di vincere la sua rielezione in piena presidenza di turno dell’Unione (primo semestre 2022), è quella giusta, per una volta. Draghi la appoggia, ma la Germania è debole, con un governo “semaforico” dalla prospettiva nebulosa. Chi altri può appoggiarla? Serve una scossa come quella della pandemia per svegliare governi e popoli riottosi e convinti di vivere ancora nell’epoca degli Stati nazionali? Forse serve una scossa maggiore, visto che la pandemia è stata appena sufficiente per far approvare – tra mille contrasti – un Piano di ripresa e resilienza da 500 miliardi che potrebbe essere un unicum non replicabile (già lo interpreta così il nascente governo tedesco).
Chissà cosa mai ci vorrà per capire che il mondo è cambiato e che la globalizzazione non è solo ordinare un vestito in Cina e averlo a casa in due giorni o spostare capitali e aziende da un continente all’altro in un batter d’occhio, ma anche l’emergere di Stati nuovi, di potenze nuove, di nuovi ed inimmaginabili scenari, in cui la nostra stessa esistenza potrebbe essere compromessa, se non vi poniamo rimedio. Lo ha detto perfino Boris Johnson al G20 a Roma, nello scenario del Colosseo: l’impero Romano è caduto perché non ha saputo cogliere il nuovo, capire cosa avveniva alle sue frontiere, cosa doveva fare per salvarsi. Il paradosso è che colui che ha avviato un processo di disgregazione dell’Europa ora avverte che l’Occidente, se non il mondo intero, deve “lavorare insieme”. Belle parole, ma per dare loro significato, bisogna che ciascun attore sia credibile, cioè dotato di strutture, di leggi e di procedure che gli consentano di essere credibile. E oggi per essere credibili bisogna essere economicamente e militarmente all’altezza delle superpotenze, della sfida della globalizzazione. Solo gli Stati Uniti d’Europa possono esserlo, ma è l’unica vera scelta che abbiamo. Nel mondo che verrà non c’è un’alternativa, non c’è la terza via della “confederazione”, della mitica “Europa delle Nazioni” vagheggiata dalla destra. C’è solo da lavorarci, convincere gli indecisi, approfittare di tutte le occasioni per fare un passo avanti in questa direzione. Come Manzoni fece dire al cancelliere di Milano Antonio Ferrer, nei Promessi Sposi, Adelante, Pedro, con juicio!
Raffaele Raja