Roma città eterna ed immobile

Dopo un primo turno ricco di colpi di scena, dal sorpasso di Calenda su Raggi ai 3 punti percentuali di vantaggio di Michetti, la corsa al Campidoglio si è conclusa con la vittoria di Gualtieri e l’ormai usuale fitto bosco di retroscena politici dai risvolti locali e nazionali. Non sono infatti mancati gli addii degli sconfitti, coloro che fino a un attimo prima avevano giurato di sedersi all’opposizione, ma che poi hanno ricordato che in fin dei conti gareggiavano solo per vincere e non per partecipare. Un copione già visto alle regionali, celebre fu l’addio di Borgonzoni in Emilia Romagna, e che sembra cambiare registro solo al Parlamento, dove invece basta indossare una casacca differente e rispolverare un simbolo più o meno riconoscibile con il quale farsi il proprio partitino.

Così la scelta di Michetti di darsi ad altro non ha sorpreso quasi nessuno, mentre il vado non vado di Calenda ha sollevato qualche perplessità in più e raggiunto il grottesco nella polemica tra il leder di Azione e il ventunenne Roman Pastore (un’altra triste pagina degli effetti lesivi di Twitter sulle persone di una certa età). Raggi sta invece presidiando i banchi dell’opposizione, come promesso, e nel frattempo si lascia tentare (così vogliono le voci di corridoio) da Di Battista, che sembra ormai prossimo a rispolverare l’anima movimentista dei M5s (sempre ammesso che non si vada a votare domani). Ed è da questo tranquillo quadretto romano che l’elezione della capitale riapre vecchie ferite, getta sale q.b. e poi cauterizza col fuoco, perché filo e ago sono cose da gente del Nord.

Calenda, infatti, armato di un poderoso 19,81% di consensi prende le distanze da Renzi e cerca di ricucirsi col Pd lettiano, dimostrando (qualora ve ne fosse bisogno), che in politica “il nemico del mio nemico è mio amico” e guai a rimarcare le differenze su visioni e programmi, perché tanto quelli si aggiustano a colpi di fiducia e quindi il problema non c’è. In casa Pd, invece, le spine si affilano col tempo e di tanto in tanto si cospargono pure di abbondanti quantità di veleno, così che oltre alla carne si possa ledere anche lo spirito del rivale (soprattutto se interno); e da questo punto di vista la restaurazione del Pd romano n’è un esempio lampante. Già, perché quest’ultimo aveva ancora le ossa rotte dalla giunta Marino e dalle lotte tra Zingarettiani e Renziani, tuttora presenti anche in Parlamento e la cui facile risoluzione col voto tenta ogni giorno di più l’attuale segretario Enrico Letta. Ma procediamo con ordine. Marino non ha mancato di fare commenti pre e post elezione sulle scelte del Pd romano, ricordando come il tempo non curi affatto ogni tipo di ferita, “Roma è tornata Roma. Ognuno dei capibastone romani ha avuto la sua quota”. Letta, invece, dopo essersi aggiudicato un seggio e al pari di Calenda aver esteso la portata di quel voto a livello nazionale, vuole derenzianizzare il Pd, costi quel che costi. Poco importa che Cassese faccia notare la fragilità del consenso di Letta, o che senza un Mattarella bis e Draghi al colle, la via delle urne potrebbe aiutare più la destra che la sinistra. Quello che conta è disinfestare il Pd e riaffermare la bontà delle proprie idee di bandiera.

Di fatto, e a prescindere dalla ragionevolezza delle premesse, il voto comunale, soprattutto a Roma, è diventato un modo per affermare le logiche che hanno premiato tizio e caio, senza però voler vedere ciò che contraddice la propria teoria e voler entrare nel merito. Quest’ultimo infatti, renderebbe evidenti le lacune di una campagna elettorale giocata su slogan e non sulle idee. Un esempio? Il tema dei rifiuti è stato fatto passare in sordina, come se l’opinione pubblica romana fosse contenta di monnezza e dei cinghiali che cercano di ridurla, ma i nodi si sa, prima o poi vengono al pettine. L’idea di Gualtieri per ridurre i rifiuti qual è? Facile, dare un bonus a chi si ammala poco. Certo, se invece di bonus lo chiami premio produttività, e al posto di assenteismo usi il più cortese malattia, allora l’idea pare sensata, soprattutto a chi ha le orecchie coperte dal miele della vittoria, ma nei fatti l’assenza di strategie sul post voto non si dovrebbe risolvere facendo una giunta che premi ambo i sessi e poi esprima soluzioni di questo tipo. Eppure le elezioni romane ci hanno regalato anche questo.

Forse sarebbe opportuno armarsi di pallottoliere e taccuino per andare a caccia dei votanti e capire le loro motivazioni, nonché quanto siano interessati dalle mosse di partito; ma questo richiederebbe ammettere, seppur per poco, che forse la vittoria e la sconfitta sono frutto di più elementi e non di un semplice riepilogo dei propri punti di forza e debolezza. Però tutto ciò esula dalla logica politica di chi sconfitto si ritira e chi vittorioso regola i conti in casa propria. Speriamo che almeno il Giubileo vegli su Roma, perché tra cinghiali, monnezza e “premi di produttività”, sembra che la città eterna sia destinata ad esserlo non solo per via del proprio passato, ma anche per la staticità del suo presente.

Claudio Dolci

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