Francia: in tre mesi una nuova Europa?

La polemica scoppiata in Francia, il primo giorno del nuovo anno, è emblematica della situazione del paese alla vigilia delle elezioni presidenziali, previste in aprile. L’estrema destra e poi la destra hanno violentemente attaccato il governo e il presidente Macron per “l’inaudito oltraggio” di aver sostituito la bandiera francese con quella dell’Unione Europea sotto l’arco di trionfo, all’Etoile. La bandiera che staziona in permanenza sulla tomba del milite ignoto è stata sostituita per un giorno con quella europea, per celebrare l’inizio del semestre di presidenza francese del Consiglio dell’Unione. Un evento che il presidente Macron ritiene fondamentale per il suo Paese, al punto da rischiare l’impopolarità per sottolineare, come recita il motto della presidenza di turno, il “rilancio, la potenza, l’appartenenza” all’Unione. Un evento che si è concluso dopo un giorno, non è chiaro se a causa dell’unanime levata di scudi dell’opposizione o se perché era previsto durasse solo il giorno di Capodanno. In ogni caso, un evento simbolico, nella sua polemica, perché segnala quanto il vento nazionalista e sciovinista sia forte in Francia, nonostante i buoni propositi di Macron (che, occorre ricordare, aveva fatto suonare l’inno europeo e non la Marsigliese alla festa per la sua elezione nel 2017).

L’Europa è ancora una volta il banco di prova e la pietra di paragone al tempo stesso per un presidente che cinque anni fa aveva voluto uscire dallo schema destra-sinistra, creando ex novo un suo partito, La République en Marche (LREM), poi rapidamente declinato nell’opinione pubblica e nei sondaggi. Una sortita fuori dagli schemi che nel 2017 sembrava simile a tanti altri esperimenti “terzisti” in altri Paesi: dal tentativo di Renzi con Italia Viva alle suggestioni dei fanatici della Brexit. La Francia si sforzava di dimostrare che la sinistra, imperniata sul partito socialista, e la destra, sul partito neo-gollista dei “repubblicani” (LR), erano ormai categorie superate, così come le distinzioni ideologiche figlie del secolo ventesimo. Così la pensava (e la pensa ancora) Renzi, così la pensavano gli inglesi di Nigel Farage, l’UKIP, allora col vento in poppa, così i “gilets jaunes” che ogni sabato per più di un anno sono diventati l’incubo dello stesso Macron e dei commercianti parigini.

Macron non è riuscito a sconfiggere il nazionalismo interno, né a imporre una visione de-ideologizzata e pragmatica della politica. La sua visione incondizionatamente neoliberista (ormai è visto come “il presidente dei ricchi”) si è scontrata con la più grave crisi mondiale dal 2008: la pandemia del Covid-19. Il suo governo ha reagito tardi e male, rispetto all’Italia, primo paese europeo colpito, lasciando che il virus attaccasse a fondo un sistema sanitario nazionale fiaccato – come quello italiano – da anni di tagli e di privatizzazioni. La protesta feroce dei gilet gialli lo ha costretto a ridurre le ambizioni ecologiste, gli obiettivi ambiziosi di COP 21 (Parigi 2015), e a sconfessare nei fatti l’unico originale esperimento di democrazia diretta che aveva intrapreso, la “Convenzione cittadina per il clima” (2019). Non puoi chiamare cento persone estratte a sorte, farle discutere soluzioni per ridurre le emissioni di CO2 e raggiungere gli obiettivi ambiziosi di COP21, e poi disattendere quasi del tutto le conclusioni di questa inedita assemblea. Stessa sorte opaca per la proposta di introdurre i referendum in un paese da sempre centralista e scettico di fronte a una concreta partecipazione diretta dei cittadini.

Il carisma del presidente è stato attaccato più volte in questi anni, nulla gli è stato risparmiato, né sul piano personale né su quello politico. Ancora una volta però, forse proprio il disfacimento dei partiti tradizionali, e il fiorire di nuovi partiti potrà favorire le ambizioni presidenziali di un nuovo mandato. A destra, gli iper-estremisti della Reconquête di Eric Zemmour, un istrionico giornalista del Figaro, su posizioni nazionaliste e anti-immigrati ben più dure della solita Le Pen. A sinistra, Jean-Luc Melenchon di France Insoumise, ben deciso a non confluire in un polo unitario con la sinistra moderata, riuscendo nel facile obiettivo di far crollare ancora di più il consenso popolare per la sinistra. Macron nel primo turno dovrà solo riuscire a prendere un voto in più dei principali concorrenti di destra (Valérie Pécresse di LR, Marine Le Pen del Rassemblement National, Eric Zemmour).

Gli ultimi sondaggi di qualche giorno fa danno Macron – che formalmente non ha ancora dichiarato la sua candidatura – al 26 per cento, ben dieci lunghezze più della Le Pen e della Pécresse, inchiodate sul 16 per cento, mentre Zemmour dopo un’iniziale fiammata sembra declinare intorno al 13 per cento (sufficiente però a distruggere le ambizioni di Le Pen di essere il primo partito). Al secondo turno, Macron potrà vincere agevolmente se avrà di fronte Marine Le Pen, vista dai più come un salto nel buio. Più incerta la vittoria se il suo avversario sarà Valérie Pécresse, popolare presidente della regione dell’Ile de France (quella di Parigi), che da brava gollista potrebbe ricompattare destra e centro ribaltando il risultato.

A meno che Macron non riesca a sfruttare al massimo i primi tre mesi della presidenza dell’Unione, ottenendo qualche risultato di sapore nazionalista. Per esempio, riuscendo a imporre la visione francese della difesa comune europea, basata sull’unica potenza atomica rimasta nella UE dopo l’uscita del Regno Unito. Oppure offrendo un enorme vantaggio competitivo alla sua industria nazionale se il nucleare sarà accettato come energia sostenibile dal Consiglio europeo (la Commissione si è già sbilanciata in questo senso, suscitando per ora una formale protesta dei paesi che il nucleare l’hanno abbandonato). Sintomatico al riguardo il silenzio dell’Italia, ormai vincolata alla Francia dal Trattato del Quirinale, visto dai più come un indubbio successo della diplomazia francese, nonostante l’incertezza sulla sorte dei due leader, Macron e Draghi, che fra un anno potrebbero non esserci più, lasciando il trattato in balìa degli eventi.

Sulla carta, tre sono gli obiettivi del semestre di presidenza francese: mettere le basi di una nuova, autonoma difesa europea; accelerare la riduzione delle emissioni di CO2 e in generale l’adattamento al cambiamento climatico; affermare il primato dell’Europa sociale, facendo approvare il salario minimo europeo, valido in tutti gli Stati. Tre traguardi che guardano a destra e a sinistra, che si propongono di affermare il primato della Francia e in qualche modo, il vecchio principio napoleonico, che “la Francia è l’Europa, e l’Europa è la Francia”. Un po’ arrogante, forse, ma se vogliamo l’Europa unita, una potenza continentale in grado di contrastare l’egemonismo cinese, americano o russo, non abbiamo altra strada che sostenere questo sforzo del presidente Macron. Lui è l’unico dei leader attuali – forse con Draghi – che veda nell’Europa il futuro della propria nazione. Nessun altro, compreso il nuovo cancelliere tedesco Scholz, ha questa ambizione e può realisticamente pensare di contribuire alla costruzione di una Europa politica.

Ecco allora la sfida geopolitica. Se Macron vince (e l’Italia non abbandona l’alleanza del Trattato del Quirinale, cosa che potrebbe succedere “dopo Draghi”), vince l’Europa. Se perde, tutti gli scenari peggiori sono possibili. Se Macron vince, anche per questa volta la Francia democratica potrà tirare un sospiro di sollievo, nella speranza di evitare il crollo della democrazia ipotizzato dallo scrittore francese Michel Houellebecq per le elezioni del 2027 o del 2032…

Raffaele Raja

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