L’impero di Xi e la lotta nel Pacifico

È trascorso così tanto tempo da quando gli Stati Uniti hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale, ed imposto un’interpretazione univoca del mondo all’Europa, che per molti cittadini europei la Cina appare ancora come una potenza minore, qualcosa di cui potersi preoccupare solo “dopo” tutto il resto. N’è una prova il fatto che ci si interroghi molto di più, per ragioni di prossimità, sul conflitto ucraino rispetto a quello in corso tra Taiwan e Pechino, oppure che il vaglio di North Stream 2 stia portando con sé così tanti dubbi mentre la Belt and Road sia stata varata, sostenuta e già dimenticata. Eppure è dalla Cina che provengono le terre rare di cui sono composti gli smartphone e gran parte dei dispositivi elettronici avanzati, ed è sempre dall’impero di Xi che giungono a noi i semilavorati di cui si nutre la PMI italiana ed infine è da Wuhan che sembra essere originato Sars-Cov2. Non si sa ancora se dal laboratorio di biosicurezza di quarto livello presente nei pressi della città, oppure dal mercato degli animali vivi, perché non è ancora stato possibile condurre indagini indipendenti in grado di fugare ogni ragionevole dubbio. Ma in tutto questo assembramento di fatti c’è una cosa dovrebbe già essere chiara, la Cina è sì distante, ma allo stesso tempo ben più vicina di quanto si sia soliti pensare. Come ci insegna la filosofia Cinese stessa, da Sun Tzu a Lao Tzu, per andare a destra è sempre prima opportuno procedere con una leggera svolta a sinistra e quando si ipotizzano scenari non è bene fermarsi a 5 o 10 anni, ma occorre guardare a 50 o a un secolo da oggi; in accordo con la pianificazione strategica adottata da Mao e poi abbracciata da Xi (con tutte le eccezioni del caso).

In Cina nulla sfugge al controllo del grande fratello e il grado di repressione dei dissidi è oltre qualunque immaginazione di Orwelliana origine. Persino nella lotta a Sars-Cov2 la strategia “zero casi” di Pechino non ha subito cambi di rotta rispetto a quando è stata annunciata dal partito e oggi tre città (Anyang, Xi’an e Yuzhou) e i loro 20 milioni di abitanti sono in lockdown. A Xi’an, i 13 milioni sono stati costretti a ricorrere a baratto ci si scambia sigarette per verdura e la gente denuncia la penuria di cibo, eppure il timore di sfidare Pechino è tale da indurre i più a ubbidire al comando dello Stato centrale, piuttosto che ribellarsi ad esso. Memori non solo degli orrori di Piazza Tienanmen, tuttora così evocativi da essere censurati in tutti modi, persino quando quel luogo appare per qualche istante in uno spot della Leica, ma di ciò che è accaduto di recente a Hong Kong. L’ex colonia britannica che sino al 1997 ha goduto della propria indipendenza dalla Repubblica Popolare Cinese e che oggi è invece stata del tutto riassorbita all’interno della Cina. A nulla è valso lo sforzo di Joshua Wong, tra i leader della “rivolta degli ombrelli”, incarcerato per aver manifestato e richiesto le dimissioni della governatrice Carrie Lam, nonché per aver ricordato i fatti di Piazza Tienanmen. L’ennesima prova di quanto ogni ostacolo al progresso cinese e di discussione sulla democraticità dell’esecutivo siano da ritenersi fuori legge. Xi è il capo e lo sarà finché vorrà, finché sarà in grado di garantire il benessere (di cui i cinesi usufruiscono e quantificato dalla crescita costante del Pil) senza la scocciatura della democrazia, un orpello quest’ultimo, di cui è bene non curarsi troppo. E fin qui nulla è cambiato rispetto a Mao, al libretto rosso e la rivoluzione culturale. Allora perché degnare d’interesse ciò che accade in Cina?

In parte per via della genesi e della “cura” adottata nei confronti di Sars-Cov2 e del Covid-19. La Cina è stata prima accusata dall’Occidente e poi acclamata per la gestione della pandemia, tanto che c’è persino chi si è chiesto (e questo anche su molti giornali italiani) se non si debba sospendere la democrazia in situazione d’emergenza. Monti ha stesso avanzato l’ipotesi di censurare i media e adottare una comunicazione più istituzionale, tipica delle situazioni di guerra. E ciò è preoccupante perché insieme ai massacri è stato il senso di sicurezza e benessere promesso a far accettare ai cinesi l’attuale struttura della società. Dall’altra parte, a far preoccupare è la modalità con la quale la Cina di Xi si sta imponendo sulle sorti del futuro geopolitico ed economico del mondo intero. Basti pensare che il 90% delle terre rare è a oggi prodotto in territorio cinese e che queste risorse servono a sviluppare le tecnologie necessarie alla transizione energetica (come le auto elettriche), strumenti di difesa e a “gestire” i famigerati colli di bottiglia di cui si è parlato tanto agli albori della ripresa dei commerci post-lockdown. Adesso, però, un passo indietro. Le terre rare a oggi usate sono 17 e il governo di Pechino ha appena approvato la fusione e diretta gestione, sotto la sua proprietà, delle 3 principali compagnie nazionali che si occupano di queste risorse strategiche. Il nuovo gruppo così sorto si chiamerà China Rare Earth Group e da solo gestirà il 70% dell’output di terre rare prodotte dalla Cina. La logica di questa mossa risiede nella possibilità del governo centrale di gestire meglio il prezzo di quelle risorse che ad oggi sono necessarie, insostituibili e strategie per tutto il mondo sviluppato. Grazie a questo dominio la Cina può tranquillamente soddisfare il suo fabbisogno interno e far sentire come carente, oppure no, quello di altri Paesi, come sta già accadendo con le batterie dei veicoli, che per il 70% sono in mano a Xi. Ma l’ambizione di uno stato come quello cinese non si misura nella sua capacità di gestire una o più risorse strategiche, ma in quella di saperne sempre conquistare di nuove. In quest’ottica si spiega l’attuale contesa per in atto con gli Stati Uniti per riassorbire anche Taiwan in un’unica Grande Cina.

Al di là della propaganda di partito, una delle ragioni, se la più importante, che spinge Pechino a reclamare Taiwan risiede nelle capacità produttiva dell’isola. Come ha descritto John Lee, nel numero di Limes dedicato a Formosa, l’azienda Tsmc, leader mondiale nella produzione di semiconduttori, rappresenta un polo industriale al momento insostituibile e per questo, da sola, ha oggi un valore di mercato che supera i 500 mld di dollari. “Oltre la metà del mercato globale delle fonderie di semiconduttori e con un semimonopolio sulla fabbricazione dei processori più avanzati – scrive Lee – Tsmc è il tipico collo di bottiglia nell’era della lotta per le filiere produttive”. Per questo c’è chi ha suggerito di ricorrere a una qualche forma di autarchia, com’è stato per le mascherine e i farmaci nel periodo più acuto della pandemia, ma non è così semplice spostare il know-how e con esso le fonderie dall’altra parte del mondo: i costi sarebbero insostenibili e la strategia complessiva debole. Solo per delocalizzare la produzione dei semiconduttori si parla di costi vivi intorno al trilione di dollari, senza considerare i rincari che un trasferimento del genere imporrebbe sul consumatore e il fatto che tali investimenti risentono ogni anno di una domanda che cresce 13%. Quella di Tsmc è poi una storia di ricatti e pressioni indirette, com’è poi la stessa che costella tutto il rapporto tripolare instaurato tra Pechino, Taipei e Washington.

Nel ’72 Nixon volò in Cina e nel ’79 gli Stati Uniti riconobbero la Repubblica Popolare Cinese, ma allo stesso tempo non abbandonarono Taiwan a sé stessa, poiché troppo strategica dal punto di vista militare. Chi controlla Formosa controlla la prima barriera di isole da cui poter esercitare un filtro nei confronti di commerci e transiti militari. Per questa ragione l’isola è così importante per i Giapponesi, che vogliono mantenere una qualche forma di presidio fisico tra sé e i cinesi, ed ovviamente per gli americani, i quali possono, mantenendo inalterato lo status quo, utilizzare Taiwan come gigantesca portaerei alle porte della Cina. Tutto questo perché al di là dei ragionamenti sulle categorie adottate dalla nostrana politica da salotto, esistono luoghi del mondo che in virtù della loro collocazione strategica sono ambiti, perché controllano l’accesso a parti del mondo o possono fungere da base in casa nemica. Cuba e l’Italia sono due classici esempi. Non è un caso che la Cina abbia voluto instaurare la Belt and Road proprio con l’Italia, e non per ragioni economico-culturali, quelle ci sono, ma vengono pur sempre dopo la posizione centrale rispetto al Mediterraneo, all’Europa e a Caoslandia; non vogliono certo le nostre arance. Per chi avesse dubbi su tale interpretazione è sufficiente analizzare le similitudini che ci sono tra la cultura cinese e quella africana, per accorgersi degli evidenti interessi legati alla posizione strategica nel transito delle rotte commerciali e nell’estrazione delle risorse necessarie al progresso di Pechino. La ragione per cui Xi vuole Taiwan è questa ed è la stessa per la quale l’Aukus e il Giappone si sono schierati per mantenere l’attuale status quo ed evitare una guerra: guerra che nessuno degli attori sin qui citati, India compresa, vuole. Tuttavia, Xi ha già dato una timeline per la riconquista di Taiwan, ovvero 2049, possibilmente da completarsi prima, magari 2032.

Tutto spiegato? No. La geopolitica è tutt’altro rispetto all’adozione di un solo punto di vista, perché sin qui si è letta la storia della contesa tra la Cina e Taiwan da una sola prospettiva, ovvero quella americana, quella dell’egemone, ma ne esistono altre. A tal proposito, in un lungo articolo uscito sulla La Fionda, Alberto Bradanini, ex diplomatico italiano, ambasciatore a Teheran dal 2008 al 2012 e a Pechino dal 2013 al 2015, ci offre la visione dei fatti dalla prospettiva cinese. Scrive Bradanini “gli Stati Uniti, a partire da Reagan essenzialmente – alla luce di un relativo ridimensionamento sulla scena mondiale – hanno gradualmente imposto una militarizzazione delle relazioni internazionali”. La quale, per Bradanini, è stata condotta con ogni mezzo possibile, dai Media (cinema e informazione in prima fila) all’economia, con Friedman e il neoliberismo, ma anche proprio in modo fisico, con guerre, produzione di armi e creazioni di basi militari con le quali tenere in scacco le potenze avverse all’egemone per antonomasia. “Secondo la narrativa prevalente,- racconta Bradanini – La Cina poi costituirebbe una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’Occidente. Noi saremmo depositari di valori superiori. E la rivalità sarebbe insanabile, basata su distanze politiche, economiche e ideologiche, sebbene poi i rapporti tra i due fronti siano in contraddizione con tale assunto. A fine anno – ad esempio – il commercio Cina-Usa supererà i 635 mld di dollari (in aumento del 30% dall’inizio della guerra commerciale dichiarata da Trump tre anni orsono)”. Ed al di là dell’aspetto economico, l’ex ambasciatore italiano riesamina il come la Cina sia diventata lo specchio del “male” del mondo, suggerendo come non sia qualcosa che Pechino fa a rappresentare una minaccia, ma ciò che essa è per gli americani: un’antagonista contro, aggiungo, cui stanno perdendo. Il copione è sempre lo stesso: affinché l’egemone resti tali è necessario innescare un conflitto, negare le proprie colpe e nascondere le prove. È successo con le fantomatiche armi di distruzione di massa possedute da Saddam e le vittime civili che la guerra coi droni ha prodotto e che Assange ha svelato. Ora il pretesto ufficiale per attaccare la Cina, o quanto meno ghettizzarla, è l’assenza di democrazia e il genocidio degli Uiguiri, entrambi fatti incontestabili, mentre lo sono meno le giravolte di chi invade l’Afghanistan dicendo di restare per il Nation Building e poi abbandona Kabul per non tornarci più. Oppure di chi stringe patti con assassini e dittatori di tutto il mondo per il proprio tornaconto, finanche a suggerire di sopprimere la libertà di parole in contesti d’emergenza.

Certo, anche quest’ultima è una lettura univoca della geopolitica, come lo è quella utilizzata in precedenza. Ambedue omettono e accentano quelle parti del racconto che più altre giustificano la propria visione del mondo ed agire. Tuttavia, per chi osserva la scena da fuori è quanto mai necessario formulare dei dubbi, porsi nella condizione di continua verifica della propria conoscenza, fino a mettere in croce anche la propria cultura, perché è solo così che si può analizzare la geopolitica. Altrimenti, ed è quello che fanno quasi tutti, si riportano chiacchiere da bar avvolte in più dotte parole, ma prive di una qualsivoglia differenza. Cina e Stati Uniti sono due potenze allo specchio, una in ascesa e l’altra che si aggrappa al status quo, mentre tutti gli altri attori mondiali, più o meno consapevolmente, prendono parte a una partita di scacchi da pedoni e alfieri, invece che scendere in campo.

W. Ming

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