Ucraina, Polonia: due scenari, una sfida.

Conoscere la storia aiuta a comprendere il presente. Sempre e dovunque, ma soprattutto quando si parla di geopolitica. La storia dell’Europa è abbastanza conosciuta, ma la storia dei paesi dell’Est è per noi mediterranei qualcosa di lontano, qualcosa che rimanda all’epopea dei barbari che distrussero l’Impero Romano d’Occidente. Un’immagine più nitida ci appare se saltiamo la storia antica e ci rifacciamo a fatti più recenti. Per esempio all’Unione Sovietica, costruita sulle basi dell’impero zarista, dal 1917 fino al suo disfacimento nel 1991, due anni dopo la caduta del muro di Berlino. Il crollo dell’impero comunista che aveva tenuto testa agli Stati Uniti, l’impero capitalista occidentale, ha generato una moltitudine di conflitti e situazioni irrisolte, spesso alimentate da nazionalismi su base etnica e religiosa. Conflitti e situazioni sulle quali il comunismo aveva messo un coperchio, come su una pentola in ebollizione, sforzandosi di tenerlo chiuso finché è stato possibile, ma senza risolverne le cause. Un caso emblematico? La Crimea.

Un territorio da sempre russo, con il più grande porto militare della marina zarista sul Mar Nero, Sebastopoli. Una piccola penisola di rilevanza strategica, in cui i russi, pur dopo l’incorporazione del territorio nell’Ucraina indipendente del 1991, avevano conservato la base navale militare. L’occasione di sfoggiare potenza militare e sfrontatezza politica arriva nel marzo 2014, quando la Russia di Putin decide di invaderla per riprendersela definitivamente. L’occasione di testare sul campo, per la prima volta, la reattività degli occidentali, e in particolare della NATO, il nemico di sempre.

Subito dopo, Putin alimenta la rivolta dei russofoni della provincia ucraina del Donbass, al confine orientale dell’Ucraina con la Russia, e sponsorizza nel maggio di quello stesso 2014 la dichiarazione unilaterale di indipendenza di quel territorio. Una situazione esplosiva di guerra aperta tra l’esercito ucraino e i ribelli filo-russi, che nel mese di luglio porta all’abbattimento “per errore” del Boeing 777 della Malaysian Airlines con quasi trecento persone a bordo, ad opera di un missile “impazzito”, un’arma di inaudita potenza fornita dai russi ai ribelli. Un teatro di guerra aperta che, alla luce del terribile episodio dell’aereo civile abbattuto, colpevole solo di trovarsi – pur se a diecimila metri di quota – sulla verticale del territorio ucraino, spinge le potenze occidentali a premere sulle parti in causa per arrivare a una precaria intesa, nota come “Accordi di Minsk”.

Minsk, la capitale della Bielorussia, altro territorio ex sovietico, dal 1991 repubblica indipendente con un presidente a vita, Lukashenko, strettamente legato alla Russia. Ecco come si legano i due episodi che stiamo per descrivere. Due fasi dello stesso conflitto “ibrido”, o pre-bellico, secondo alcuni osservatori, che si svolge ormai su tutta la lunghissima frontiera dell’Unione europea e dei paesi-cuscinetto (come l’Ucraina) con la Russia.

Partiamo proprio dall’Ucraina, di cui abbiamo descritto la situazione. Ora il nuovo presidente, il nazionalista (ed ex attore comico) Volodymyr Zelensky si è avvicinato ancor più all’Unione europea e soprattutto alla NATO e agli USA, chiedendone a più riprese l’aiuto per contrastare la minaccia russa. E, più che gli Europei divisi e balbettanti, soggiogati dalla dipendenza dal gas russo, sono gli Stati Uniti che rispondono, offrendo dal 2014 a oggi quasi 2,5 miliardi di dollari di aiuti militari all’Ucraina. In più, lasciano intendere che l’ombrello NATO potrebbe in breve tempo estendersi fino al confine russo, nonostante la situazione ancora aperta del Donbass. E nonostante la sempre più intensa attività dell’esercito russo oltre confine, che macina una esercitazione dopo l’altra, dando dimostrazione di potenza ai suoi vicini. Una minaccia reale e attuale? Fino a qualche mese fa, solo parole. E traffico d’armi, dalla Russia ai ribelli, nonostante la loro comprovata inaffidabilità dopo l’incidente dell’aereo malese.

Ora invece, secondo le fotografie diffuse nelle scorse settimane dall’intelligence americana, i russi hanno schierato 175mila soldati, cinquanta battaglioni di fanteria meccanizzata con supporto di carri armati e artiglieria pesante, alla frontiera orientale ucraina. Centomila proprio a ridosso della frontiera, gli altri entro un raggio di cento chilometri (un’ora di percorso in autoblindo). Troppi uomini per una semplice esercitazione. Forse pochi per un’invasione completa di un territorio vasto come quello ucraino, ma sufficienti per un’azione limitata al territorio “indipendente” del Donbass. Il presidente Biden ha chiamato Putin al telefono e – da quello che si sa – ha promesso una “ritorsione adeguata” se ci sarà un’invasione. Nei colloqui bilaterali di Ginevra, appena iniziati, si tenterà di trovare una soluzione diplomatica, anche se le richieste russe sono improponibili (tenere la NATO fuori dell’Ucraina e della Georgia).

E l’Europa, non presente a Ginevra? L’Unione Europea ha fatto dichiarazioni di fuoco minacciando la Russia di ulteriori sanzioni commerciali, senza dare l’idea di poter fare di più. La Germania – il nuovo governo Scholz – ha bloccato i lavori del gasdotto North Stream che dovrebbe presto portare il gas russo in Europa direttamente dal Baltico. Gasdotto che in sé sarebbe una soluzione ideale per evitare i rischi connessi all’unica infrastruttura oggi esistente, che attraversa appunto il territorio ucraino (e che già in passato era stata bloccata dalle scaramucce diplomatiche tra Russia e Ucraina). Peccato che la mossa tedesca rischi di creare problemi solo agli Europei, che si troveranno senza una continuità di fornitura del gas necessario al riscaldamento e alle centrali elettriche, e dovranno pagare a prezzo maggiorato quel gas che riusciranno a trovare sul mercato. Peccato che, in ultima analisi, l’esempio della Crimea non rassicuri affatto il governo ucraino circa la concreta capacità delle potenze occidentali di fermare i russi. 

Ci troviamo di fronte all’ennesima provocazione russa nei confronti delle potenze occidentali? L’ennesimo test, magari più spinto ancora dei precedenti? E quale sarebbe poi lo sbocco di tutti questi test, queste prove di forza? Dimostrare che la forza paga, soprattutto se esercitata da paesi governati da autocrati contro paesi democratici le cui le opinioni pubbliche non gradiscono di essere coinvolti in una guerra lontana e incomprensibile? Vedremo, purtroppo. Putin sa che l’Ucraina non fa parte della NATO né dell’Unione Europea, quindi può spingersi fino al punto di rottura e forse oltre, senza temere alcuna azione militare occidentale.

Altro scenario, altro tipo di test, molto più complesso e delicato. Sempre in Europa, ma questa volta alla frontiera orientale dell’Unione, un’area che faceva parte della cortina di ferro dopo la Seconda guerra mondiale. Un’area di pertinenza dell’Unione sovietica, fino alla dissoluzione del Patto di Varsavia, sempre nel 1991, ora integralmente europea e parte della NATO, l’Alleanza Atlantica. Un completo rovesciamento di fronte per la Polonia e le tre repubbliche baltiche, da sempre nemici giurati dell’impero russo.

In quest’area, più esattamente al confine tra Polonia e Bielorussia, stato satellite della Russia, nell’ultimo anno si è verificata una situazione di emergenza mai vista prima. Settemila profughi siriani e iracheni, ma anche afghani e perfino sudanesi, si sono via via ammassati alla frontiera polacca, nella zona di Kuznica, premendo sulle autorità per entrare nell’Unione europea, e far valere i propri diritti di profughi provenienti da zone di guerra civile. La Polonia ha sbarrato le frontiere, addirittura chiedendo agli altri Stati membri dell’Unione di finanziare la costruzione di un muro con cui proteggere le frontiere proprie e dell’Unione. Eccesso di sovranismo? Reazione esagerata di un paese, la Polonia, ormai in rotta di collisione con le istituzioni europee per via delle sue scelte nazionaliste e illiberali, sul modello dell’Ungheria di Orban? L’equazione sembrerebbe scontata: governo nazionalista e con tendenze illiberali? Ecco gonfiarsi l’incubo dell’immigrazione clandestina, della “invasione” magari da paesi musulmani, quindi la scelta di rinchiudersi al riparo di muri di cemento armato e filo spinato. Vedere alla voce Messico-Stati Uniti sotto la presidenza Trump. E invece, la situazione è un po’ diversa, e più complessa di così.

Dopo accurate indagini giornalistiche, e dei servizi segreti occidentali, si viene a sapere che il governo bielorusso organizza da mesi un vero e proprio servizio di trasporto di migranti, da Siria e Iraq, con annessa truffa ai loro danni, illudendoli di poter agevolmente entrare – legalmente – nell’Unione Europea e quindi stabilirsi in paesi di loro preferenza, dove i loro diritti sono rispettati e le condizioni di vita sono incomparabilmente migliori. Tipo Germania, Francia o Svezia. Peccato che si tratti di un’illusione. Un’illusione a caro prezzo, perché per il viaggio l’agenzia bielorussa chiede fino a 12mila euro per un “pacchetto”, comprensivo di viaggio aereo fino a Minsk, pernottamento in hotel, poi spostamento in pullman fino alla frontiera polacca (La Repubblica del 10 Novembre 2021). Tutto organizzato… comprese le spinte della polizia bielorussa a suon di manganellate verso le reti di protezione e il filo spinato polacco. E verso gli idranti con acqua gelida sparata dai polacchi sui migranti che cercano di tagliare le reti e passare in ogni modo nella nuova terra promessa. La presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen, ha esplicitamente dichiarato che questa “non è una crisi migratoria, ma il tentativo di un regime autoritario di cercare di destabilizzare i suoi vicini democratici.”

Che cosa sta succedendo? Solo un’incredibile truffa perpetrata dal governo bielorusso a spese di ignari e ingenui profughi per tirar su quattro soldi? O un perverso gioco di ruolo del dittatore bielorusso per dar fastidio ai vicini polacchi, in vista di ottenere magari dei soldi per tenersi i profughi e impedire loro di transitare, sul modello del turco Erdogan, che in questo modo ha incassato sei miliardi di euro dall’Unione europea? Chissà. Mentre l’Europa democratica si accapiglia davanti alle scandalose immagini dei poveri cristi con donne e bambini ricacciati indietro a colpi di getti d’acqua ghiacciata, qualche attento osservatore si chiede se Lukashenko sia persona da potersi inventare una così elaborata strategia senza il permesso del suo potente protettore, Vladimir Putin. E se dietro questa inedita situazione si celasse un’altra macchinazione russa?

Per capire lo scenario geopolitico, bisogna avere in mente due pilastri della strategia storica russa, da quando parecchi secoli fa l’impero russo ha preso forma in tutta la sua estensione, dal confine polacco fino alla punta siberiana di Vladivostok, sull’Oceano Pacifico. Per dire, diecimila chilometri. Altro che Stati Uniti. Primo pilastro: l’integrità dell’impero innanzitutto. Se per qualche accidente della storia, un pezzo di territorio viene perso a beneficio di un vicino, occorre riprenderselo, prima o poi. Come è stato per la Crimea. O per le repubbliche asiatiche, Kazakistan e altre, tutte formalmente indipendenti, ma di fatto controllate dalla Russia, che vi mantiene le basi militari ex sovietiche. Secondo pilastro: contrastare l’espansività di potenze straniere per loro natura collidenti o contrapposte. Come gli Stati Uniti e in generale i paesi occidentali con le loro pericolose democrazie, riunite nell’Alleanza atlantica, la NATO. In nessun modo si può lasciare che la NATO conquisti nuovi membri, avvicinandosi ai confini dell’impero.

Allora, in che modo la mossa dei profughi può servire questa strategia? Con l’Ucraina Putin sfodera il suo lato brutale, l’unico che può ottenere risultati da quelle parti. Con la Polonia, il discorso è diverso. La Polonia è membro a pieno titolo della UE e della NATO, quindi la strategia deve essere diversa. Intanto, manda avanti lo stato satellite della Bielorussia, poi non manda truppe né proprie né bielorusse, ma profughi afgani e siriani. Una situazione di guerra “ibrida”, come è stata definita. Cosa può sperare di ottenere? Un’invasione mascherata della Polonia? No, le forze in campo non lo consentono. I profughi sono settemila, per ora, e disarmati. Possono arrivare a dieci-quindicimila, ma non sono in sé una minaccia reale. Piuttosto, sono la goccia che può far traboccare il vaso del problema immigrazione in Europa. La goccia che può spingere la Polonia – già minacciata di sanzioni dalla Commissione europea per la disapplicazione delle norme europee al suo interno – fuori della UE. Difficile spingerla anche fuori della NATO. Oggi la Polonia, ferocemente russofoba, non rinuncerebbe all’ombrello protettivo americano per nessuna ragione al mondo. Ha fatto ponti d’oro perché gli Stati Uniti aprissero nuove basi militari sul suo territorio, il più possibile a est, e che addirittura vi schierassero missili anti-missili di ultima generazione. Però in una Polonia quasi fuori della UE, anche diecimila profughi musulmani possono servire a creare confusione, destabilizzare la società, incrinare la compattezza del governo.

In realtà, l’obiettivo non è la “piccola” Polonia (sono sempre sessanta milioni di abitanti). L’obiettivo è l’Europa, l’Unione Europea ancora una volta dilaniata dalle divisioni, dalle discussioni, dall’incapacità di trovare soluzioni comuni, di difendersi. Su queste divisioni punta la Russia di Putin per impedire all’Europa di costruirsi una difesa autonoma. Questo è il primo e più importante obiettivo. Agli Stati Uniti ci si penserà dopo. Magari nel 2024 torna Trump, e allora anche la NATO andrà in pezzi, perché Trump ha già detto che lui non pagherà per gli altri. Che ognuno pensi per sé. Con questa filosofia, cosa resterà dell’Occidente?

Bob De Weer

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