Un anno da dimenticare e uno per redimersi

I democratici hanno avuto ben quattro anni per ricompattarsi, creare progetti e selezionare una classe dirigente capace di eradicare il trumpismo, eppure, dopo solo un anno di governo, Joe Biden appare già spento e destinato alla guida di un unico mandato. Sleepy Joe si è ritrovato a dover maneggiare un’eredità difficile, dal Covid-19 alla guerra commerciale con la Cina, a cui si sono aggiunte le mire espansionistiche del Cremlino e la necessità di abbandonare una guerra oltremodo costosa e inefficace, com’è stata quella condotta in Afghanistan. Per di più l’attuale presidente non ha avuto i numeri al Senato, spaccato in due dagli esiti delle urne, e la sua vice, Kamala Harris, ha commesso così tanti passi falsi da precludersi la candidatura a futura presidente degli States. La somma di tutte queste iatture sembra affibbiare a Biden la stessa sorte che prima di lui è toccata a Ford, Carter, Bush senior ed infine Trump, il quale, però, sembra non voler mollare l’osso e volersi ricandidare nel 2024 (processi permettendo). Per tutte queste ragioni vale la pena riavvolgere il nastro di un anno di governo da dimenticare ed analizzare l’attuale posizionamento degli States e di Biden stesso.

Biden vinse le elezioni del 2020 grazie all’appoggio di 306 grandi elettori democratici, contro i 232 dei repubblicani, con 81 mln di voti per Biden e 74 mln per Trump, ma al Senato la musica è stata sin da subito diversa, con 50 senatori per ambedue gli schieramenti e Kamala Harris a fare da ago della bilancia. Inoltre, a gettar fuoco sulla benzina ci sono stati almeno altri episodi di pari importanza, se non maggiore, che hanno minato il cammino di Biden. Innanzitutto l’aver ereditato da Trump uno scacchiere geopolitico infuocato, dagli accordi di Abramo a quelli di Doha, a cui bisogna aggiungere l’accesa guerra commerciale con la Cina, protratta, questa volta in modo più intenso, nel rapporto tra States e Corea del Nord. Trump, inoltre, ha avuto modo di eleggere 3 dei 9 membri della Corte Suprema americana, conferendo a quest’ultima una maggioranza conservatrice; utile soprattutto al tycoon, che può ora affrontare i processi a proprio carico in modo più leggero. Si giunge così all’eredità più pesante lasciata da trumpismo, ovvero l’assalto a Capitol Hill e le conseguenze, queste anche per l’ex-presidente, che tale golpe ha generato. La più importante è senza dubbio la polarizzazione ancora più accesa dell’elettorato americano, il quale, ancora oggi, ritiene che la vittoria di Biden sia frutto di brogli. Ed a pensarlo non sono quattro gatti che vivono come preppers, ma almeno il 40% degli elettori repubblicani e il 23% dei democratici, i quali ritengono che “azioni violente contro il governo” sia giustificate. Se poi si considera che solo il 30% degli indipendenti e il 24% dei repubblicano associano i fatti di Capitol Hill a un “grande cambiamento” nel loro modo di vedere il mondo (contro il 68% dei democratici), si capisce che a distanza di un anno la frattura c’è ancora tutta e non accenna a rimarginarsi, anzi. E tutto questo peserà sulle elezioni di midterm, visto che il 47% degli intervistati dal sondaggio di Morning Consult ritiene che i fatti del 6 gennaio 2020 non influenzeranno il proprio giudizio su future votazioni.

In questo quadretto, tutt’altro che idilliaco, si è poi incagliata un’amministrazione rea di non aver saputo gestire l’inflazione, il ritiro dall’Afghanistan, la pandemia e soprattutto il tanto annunciato piano per contenere i cambiamenti climatici. L’inflazione americana è oggi al 6,8% (8/01/2022) ed il debito pubblico del Paese ha raggiunto i 28.500 miliardi di dollari, mentre nel 2001, prima della guerra in Iraq e Afghanistan, era pari a 6.000 miliardi di dollari. Sulla tenuta dei conti economici a stelle e strisce non c’è un’opinione univoca, per alcuni si parla di una bomba ad orologeria, mentre altri sostengono che ci sia ben altro di cui preoccuparsi. Tuttavia, per gli elettori americani la colpa delle difficoltà economiche in cui grava il Paese è sua, tanto che nei sondaggi è precipitato appena sopra a Trump, al 38% di consenso. Il Build Back Better (BBB), che è forse l’unica vera misura di cui Biden è stato artefice dall’inizio alla fine, si è di fatto arenata per via di un senatore eletto coi voti dei democratici: Joe Manchin. Senatore del West Virginia che ha annunciato il voto contrario al piano con le seguenti parole: “If I can’t go home and explain it to the people of West Virginia, I can’t vote for it.” Tradotto, non posso approvare un piano che danneggia l’economia sulla quale poggia il benessere dei miei elettori, ed anche il suo. Come ha scritto il Manifesto, infatti, “negli anni ’80 Manchin ha fondato Enersystems, un’azienda di carbone che, oggi, è in mano al figlio. Il senatore, solo l’anno scorso, ha ricevuto dalla compagnia mezzo milione di dollari in dividendi.” E i finanziamenti di cui il senatore ha goduto per fare la propria attività politica provengono in gran parte dal mondo del fossile. Contro di lui, invece, si è scagliata l’ala del partito democratico più radicale e attenta all’ambiente, tra cui il senatore Brian Schatz, che ha ricordato come il riscaldamento globale se ne freghi della politica e prosegua con agio la sua marcia; la quale potrebbe trovare un argine nei 555 miliardi di dollari che il BBB stanziava, su 1,75 trilioni complessivi, a favore delle energie verdi. Proprio la mancata approvazione del BBB ha reso la posizione di Biden debole nei confronti dei potenti riuniti a Glasgow, i quali hanno raggiunto accordi a ribasso anche in virtù delle sole promesse fatte dal più grande Paese per emissioni pro-capite.

Archiviato il dossier della politica interna e di quella economica, non resta che affrontare il grande caos che la potenza egemone per eccellenza ha disseminato qua e là sul globo. Biden ha dovuto gestire l’esito degli accordi di Doha, conclusi dal suo predecessore, e lasciare l’Afghanistan nelle mani talebani, con un abbandono del campo pressoché identico a quello con il quale gli States lasciarono il Vietnam. Al di là delle analogie, che sono poche, può aver senso partire dai dati: dal 2001 all’agosto del 2021, gli Stati Uniti hanno destinato circa 2.313 trilioni di dollari alla guerra in Afghanistan (si parla pur sempre di un Paese che nel 2021 ha speso all’incirca 770/780 miliardi di dollari in difesa). Il conflitto Afghano è stato portato avanti più da presidenti repubblicani, con due mandati di Bush e uno di Trump, rispetto a quelli democratici, con i due soli mandati di Obama. Ma l’idea di restare ed avviare il nation building è forse da imputare maggiormente al presidente democratico rispetto a chi l’ha preceduto e seguito (i quali, invece, miravano solo ad “esportare la democrazia”; e con quali risultati). Nel complesso l’abbandono americano ha danneggiato Biden, ma non ha intaccato tanto la posizione geopolitica degli States, quanto gli equilibri dei Paesi vicini e questo perché si è spostato l’asse d’attenzione della potenza egemone: dal medio oriente e il fronte atlantico, all’Oceano Pacifico e la minaccia cinese.

In un bell’articolo uscito su Foreign Affairs, e ripreso da TPI, Martin Indyk sottolinea il fatto che “come Kissinger nel 1973, Biden suppone che lo status quo (in Medio Oriente), sia stabile. E, ancora, come Kissinger nel 1974, pensa che la questione palestinese sia il problema di Israele: come gestire la situazione”. Ma “la vittoria dei talebani in Afghanistan incoraggerà le posizioni di Hamas, secondo cui la sua strategia è l’unica che consenta di liberare i territori palestinesi”. L’abbandono americano apre i giochi geopolitici ad altri attori, Iran e Palestina in primis, ma anche Russia, Turchia e Cina. In altre parole, il Medio Oriente è ora un terreno più caldo di quanto non fosse in passato e il ritiro delle truppe dovrebbe essere accompagnato da una politica diplomatica molto forte, volta a ristabilire un equilibrio che non veda più partecipare in modo massico (com’è stato in passato) l’egemone per eccellenza (ovvero gli States). Su Biden pesa questa responsabilità e con essa quella di regolare il conflitto tra Russia e Ucraina, mai davvero cessato e che oggi vive una nuova ondata di escalation, le quali coinvolgono soprattutto l’Europa: rea di aver fatto affidamento sulla presenza del giubbotto antiproiettile della Nato e che oggi si ritrova senza guida, senza esercito e armi di persuasione contro Putin. Invocare sanzioni economiche è sì un deterrente, ma pare oltremodo sotto dimensionato rispetto alla minaccia reale e agli effetti sortiti dai precedenti accordi commerciali contro l’annessione della Crimea da parte della Russia. Sul fronte Pacifico, invece, gli States hanno rinsaldato l’Aukus, il patto tra Stati Uniti, Australia e UK, attraverso i bilaterali e l’accordo sui sottomarini nucleari (accordo che ha ribadito, qualora ve ne fosse la necessità, l’inconsistenza geopolitica dei singoli Paesi europei); inoltre si è sviluppata una relazione più salda, in chiave anti-Cina, tra Giappone e Usa.

In questo quadro risultano quanto mai eloquenti le fragilità e le tensioni a cui è sottoposto l’attuale governo di Biden. Bersagliato in casa dall’opposizione e dalla sua stessa maggioranza, con un’opinione pubblica fortemente polarizzata, mentre all’estero è radicalmente cambiato il vertice del gioco geopolitico, spostato ora sul fronte del Pacifico. E se almeno per ora un conflitto tra Cina e Usa sembra fuori dai radar (almeno per quanto riguarda la prospettiva militare, perché da quella economica la guerra dei dazi è tutt’altro che assopita), non può dirsi altrettanto per i problemi interni al Paese. Biden rischia di perdere le elezioni di midterm e lasciare a Trump (o sua figlia Ivanka) la possibilità di riconquistare il Campidoglio. E per quanto possa sembrare paradossale, l’unico argine contro la rielezione dei tycoon proviene proprio da sua figlia e dal partito repubblicano. Liz Cheney, figlia del più noto Dick, sta cercando di far ammettere ad Ivanka che il padre poteva fermare anzitempo ciò che avvenne a Capitol Hill e che non lo fece. In un articolo di Repubblica, a firma di Paolo Mastrolilli, si riportano le dichiarazioni di Liz di fronte alla commissione incaricata di indagare sui fatti del 6 gennaio del 2020. E la figlia di Cheney avrebbe detto “ha testimonianze di prima mano sul fatto che Ivanka era andata almeno due volte (dal padre) a chiedergli per favore di fermare la violenza”. Stando ai retroscena, l’ala del partito repubblicano (Gop, Grand Old Party) che fa capo a Bush, Romney e Cheney, stia cercando di disfarsi del trumpismo o quanto meno del suo artefice, mantenendo intatta la retorica del “America Great Again”. Ma a frenare i loro piani c’è fatto che il 78% degli elettori repubblicani crede davvero che Biden abbia rubato la vittoria a Trump. Dall’altra parte, se si esclude la ricandidatura di Biden, già sfibrato dopo un solo anno di governo, non si può nemmeno più auspicare che a succedergli sia Kamala Harris, già in pole per essere la più impopolare vicepresidente d’America (per ora è in testa rispetto agli ultimi quattro). Sul tema immigrazione, ad esempio, che sarebbe dovuto essere il punto forte della Harris, è giunta a sostenere l’idea che tutto sommato sia meglio “aiutarli a casa loro”. Slogan famigliare anche in Italia e portato avanti da Matteo Salvini, non da Enrico Letta. In un interessante articolo, scritto da Rampini sul Corriere, vengono riportate le parole di Matt Lewis, sul Daily Beast, che afferma “Se è Kamala Harris l’ultima barriera fra noi e un secondo Trump, allora che Dio ci aiuti”. L’America di Biden non sta certo brillando, ma lo spettro di un rinnovato trumpismo lascia ben poche luci per il futuro e dire che siamo solo al primo di quattro anni del mandato democratico: incrociare le dita serve a poco.

Claudio Dolci

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