Francia, ultima chiamata per gli Stati Uniti d’Europa

Ventotto a ventitré. Questo il risultato in percentuale del primo turno delle elezioni presidenziali francesi, il 10 aprile scorso, per i due candidati che andranno al ballottaggio due settimane dopo: Emmanuel Macron, presidente uscente, e Marine Le Pen, eterna sfidante della destra estrema. Un sollievo per Macron, che tutti i sondaggi della vigilia davano appaiato, se non perdente, rispetto alla Le Pen. Ma anche per Le Pen, che ha dovuto attendere la fine dello scrutinio per avere la certezza di essere lei la sfidante di Macron al ballottaggio, anziché l’improbabile leader della gauche, Jean-Luc Mélenchon, per soli 400mila voti di differenza (23 a 22 per cento, al fotofinish).  

Una Francia incerta e destabilizzata andrà al ballottaggio il 24 aprile, con lo spettro di una astensione intorno al 50 per cento (già raggiunta a Parigi e tra gli elettori giovani in tutto il Paese). Incerta perché i tre maggiori partiti-movimenti sono tali con frazioni tra il 20 e il 25 per cento ciascuno; perché i due partiti storici, gollisti e socialisti, sono praticamente scomparsi (rispettivamente 4,7 e 1,75 per cento, dove vent’anni fa insieme avevano il 60 per cento); e perché il presidente uscente “vince” il primo turno con un partito-movimento evanescente (LREM, La République En Marche), e che tutti gli osservatori danno perdente, se non in crollo verticale, alle imminenti elezioni parlamentari. Per chi votano allora i francesi? Credono in un leader ma non nel suo partito?

E perché una Francia destabilizzata? Perché per la prima volta, osservatori come Marc Lazar, professore a Sciences Po e alla LUISS in Italia, parlano apertamente di “odio” come sentimento prevalente tra le fazioni politiche. Odio verso le élites da un lato, che spinge il “popolo” a votare indifferentemente per l’estrema destra di Le Pen e quella ancor più estrema di Éric Zemmour, o per l’estrema sinistra di Mélenchon. Odio verso i populisti, dall’altro lato, ritenuti dei paria coi quali non ci si può neanche confrontare: prima i gilet jaunes protagonisti dei sabati infuocati nel centro di Parigi, poi le solite destre e sinistre estreme, dai toni sempre più demagogici e xenofobici, razzisti e reazionari. Aldo Cazzullo sul Corriere riassumeva qualche giorno fa la situazione dicendo che l’establishment è contro Le Pen (e tutto a favore di Macron), ma la maggioranza degli elettori (di fatto più del cinquanta per cento, un po’ come in Italia) è contro l’establishment.

Chi ha ragione? Non a caso un altro osservatore francese sintetizzava la situazione così: “Macron vincerà, ma avrà tutta la Francia contro, con una mobilitazione delle piazze, a partire dai risorti gilet jaunes, che gli renderà la vita impossibile.” Impossibile dargli torto, considerando la polarizzazione dell’elettorato francese, accentuata dal sistema elettorale a doppio turno. Perché? Semplice. Il sistema è nato in un Paese in cui esistevano sostanzialmente due grandi partiti-schieramenti: il centro-destra, basato sullo storico partito gollista, e il centro-sinistra, basato sul partito socialista. Nel tempo, con i loro partitini-satelliti, si sono divisi l’elettorato più o meno a metà, e le cose funzionavano. C’era una destra estrema e una sinistra comunista, ma non avevano gran presa sull’elettorato. Poi, sull’onda di quanto succedeva nel resto del mondo (oggi tutte le grandi democrazie occidentali sono nella stessa condizione), i grandi partiti si sono dissolti, in favore di movimenti e sigle evanescenti, della durata di pochi anni, e soprattutto basate sul richiamo emotivo di un leader. Personalizzazione della politica, “all’americana”, che è andata di pari passo con il frazionamento delle preferenze, certamente aiutato dalla proliferazione della micro-informazione di Internet e dei social media.

Con la distruzione sistematica del ragionamento complesso, la preferenza per i tweet e la battuta fulminante a uso delle televisioni “all-news”, si è distrutto il sistema dei partiti tradizionali, e in parallelo anche in Francia si è sviluppata una forte tensione antisistema, chissà quanto aiutata da mani esterne all’Occidente, come gli hacker istituzionali russi o cinesi. Così è aumentata l’astensione, anche se in Francia il 3 aprile ha votato il 75 per cento degli aventi diritto, molto più dell’Italia o di quanto avviene nel resto del mondo occidentale (serve sempre precisare che la democrazia liberale non è universale, ma limitata all’Occidente, cioè a una minoranza di abitanti del pianeta).

Quindi, la Francia sta semplicemente allineandosi a quanto già avviene nel resto del mondo, e semmai segnala quanto il suo sistema elettorale sia ormai esaurito e necessiti di ampie riforme. Perché?  Perché il sistema a doppio turno ha il pregio di garantire l’elezione di un presidente, ma nel quadro sociale attuale, questi è espresso da non più del 20-25 per cento della popolazione, più o meno come negli USA, visti da sempre come un Paese ad alto tasso di astensionismo, dove la politica non interessa i cittadini. Questo significa che se il presidente vorrà realizzare la sua politica, si troverà ad avere contro (cioè, a essere “odiato da”) il 75 per cento del suo popolo. Se poi il suo partito-movimento non sarà nemmeno in grado di garantirgli una maggioranza in Parlamento, non si capisce cosa il presidente potrà fare nei prossimi cinque anni.

Non a caso, Le Pen ha proposto riforme costituzionali che – secondo alcuni osservatori, come Jérôme Fenoglio, direttore di Le Monde intervistato da Repubblica – cambierebbero il volto della Francia repubblicana fin qui basata sui principi della Rivoluzione francese del 1789, e infliggerebbero un colpo mortale alla stessa esistenza dell’Unione Europea. E qui arriviamo al punto cruciale rilevato da tutti i commentatori, che parlano di rischio mortale per l’Europa. Perché?

Probabilmente perché nel programma di Le Pen c’è la rinegoziazione della presenza francese nella NATO (ritirando le proprie forze armate dal Comando congiunto per riportarle sotto controllo francese) e la richiesta di revisione dei trattati UE per riportare l’Unione a niente di più che una comunità esclusivamente economica (quella che una volta si chiamava CEE). Per far questo la prima decisione che Le Pen promette di prendere è di ristabilire la prevalenza del diritto nazionale francese su quello europeo. Cioè, esattamente il contrario di quanto oggi prevedono i trattati (ciò che dà forza all’Unione), ed esattamente quello per cui la Commissione Europea ha messo sotto accusa Polonia e Ungheria. L’orizzonte di Marine Le Pen è quello di una “comunità di nazioni” indipendenti e sovrane, come richiesto da tutti i partiti di destra europei. Per sintetizzare, il ritorno ai nazionalismi del Novecento e la fine del sogno di un’Europa unita.

Dall’altra parte, Macron punta tutto sull’Europa, o meglio sull’Unione politica, sociale e anche militare, consapevole della sfida del secolo presente, in cui un continente unito, con una politica estera e di difesa comune che sia credibile (cioè dotata di un deterrente nucleare), è l’unica chance per il sistema democratico e liberale occidentale. Al di là anche dello scudo NATO e della copertura nucleare degli Stati Uniti, che dal 2024, se sarà rieletto Trump, potrebbero richiudersi in sé stessi, lasciando l’Europa alla mercé di chiunque voglia approfittarne.

Per questo Macron è l’unico ad avere la consapevolezza, la forza e i mezzi per ribaltare l’attuale situazione di debolezza. Nessun altro leader europeo può guidare l’Unione in questa direzione in questo momento storico. Fuori il Regno Unito dalla UE, la Spagna non ha storicamente i numeri e l’attitudine per svolgere un ruolo di leadership. La Germania, unico altro grande Paese che potrebbe farlo, ha un governo politicamente debole, è agli albori di un riarmo in grado di rendere adeguate le sue forze armate (a differenza della Francia, che è anche l’unica potenza atomica UE), ed è strutturalmente dipendente dalle forniture di gas russo per il suo sistema industriale.

L’Italia, che con Draghi potrebbe anche tentare di riportare le sue forze armate a una qualche capacità di difesa, è indebolita in parte dagli stessi problemi tedeschi di dipendenza dal gas russo, in parte dalla crisi permanente della politica, che potrebbe tradursi in un diverso governo, probabilmente un mix tra destra e populisti a partire dalla primavera 2023. Ecco perché la Francia – se Macron sarà rieletto – è l’unico Paese che può salvare l’Unione Europea dalla catastrofe.

di Raffaele Raja

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