La deriva economica italiana e l’assordante silenzio della politica che tace da oltre vent’anni

La notizia bomba di qualche giorno fa è che in Italia ci sono i salari più bassi di tutta la UE. In realtà era cosa già ben nota da molti anni. Iniziamo dai dati recenti: nel 2021 la retribuzione annua netta di un lavoratore italiano era di 22.339 euro contro i 29.776 della Germania, i 24.908 della Francia (tutti a parità di potere d’acquisto). La retribuzione media mensile lorda di chi ha meno di 30 anni era nel 2019 di 1.741 euro, contro i 1.914 della Francia e i 2.114 della Germania. Dal 1990 ad oggi le retribuzioni in Italia sono calate del quasi il 3%. Nello stesso periodo in Spagna solo salite del 6,2, in Olanda del 15,5, in Germania del 33,7, in Francia del 33,1.

Come ho appena accennato, questo dei più bassi salari nella UE, è però solo la conseguenza di una situazione economica generale molto più grave, che si trascina da molti anni e che riguarda le ragioni strutturali per cui l’Italia ancora oggi ha un PIL molto più basso di quello che aveva nel 2007 (quando scoppiò la grande crisi internazionale). Fatto 100 il Prodotto interno lordo del 2008, l’Italia nel 2020 aveva un indice di 95, mentre la Spagna era a 105, la Francia a 110 e la Germania a 114.

Le ragioni di questa prolungata crisi sono presto dette: la caduta della produttività totale dei fattori (ottenuta calcolando, oltre ai livelli e tipo d’investimento e organizzazione e del lavoro, anche i livelli d’istruzione dei dipendenti, l’efficienza della burocrazia pubblica e della giustizia). Ebbene, dalla metà degli anni Novanta la produttività italiana è andata calando ai livelli che aveva all’inizio degli Novanta (ossia poco meno di 0, 95), mentre tutti gli altri paesi europei sono fortemente cresciuti: la Germania arriva all’1,11, la Francia all’1,09. Ci battono persino Spagna, Portogallo e Grecia. Le cose non cambiano se guardiamo alla produttività oraria del lavoro, dove l’Italia supera di poco i 110 punti contro i 120 della Spagna, i 130 del Portogallo e 133 della Germania. In un Articolo sul Corriere della Sera del 21/11/2016 gli economisti A. Alesina e F. Giavazzi hanno valutato, anche sulla base di molte ricerche, che questi dati si spiegano in gran parte sulla base di alcune circostanze specifiche dell’Italia.

La prima è il “nanismo” delle imprese. Imprese piccole e persino piccolissime tendono a essere molto meno efficienti di quelle grandi, per minori investimenti, per scarsità di economie di scala, per tecnologie più arretrate. In questo modo nel migliore dei casi la loro produttività ristagna. In un mondo sempre più globalizzato questo indebolisce fortemente l’insieme dell’economia nazionale.

La seconda ragione è il tipo di conduzione d’impresa. Da noi il 70% delle imprese è gestito in famiglia e non da manager professionali. In Germania, per esempio, solo il 30% delle imprese è gestita dai familiari proprietari.

La terza ragione è la politica sindacale. Da noi i sindacati “hanno difeso il posto di lavoro invece che il lavoratore. Un sistema di protezione sociale … che ha obbligato a mantenere in vita imprese poco produttive, anziché facilitarne l’uscita dal mercato proteggendo temporaneamente il disoccupato, finché quest’ultimo non abbia trovato lavoro in una impresa più produttiva”, magari con l’aiuto di una agenzia pubblica che conosca bene le mutevoli esigenze del mercato del lavoro. A tutto questo si sommano le già citate inefficienze della burocrazia e le carenze scolastiche (cui si è accennato sopra).

Quarta ragione. I dati segnalano che le imprese non hanno innovato le tecnologie produttive per oltre vent’anni. A fronte di tutto questo l’Italia ha il paradosso di essere il paese europeo con maggiore ricchezza (sia immobiliare che di risparmi in titoli). Mentre è il paese che investe meno di tutti. Solo il 3% del risparmio familiare viene reinvestito nelle imprese, contro il 40% negli USA e il 23% in Germania, benché l’Italia abbia il risparmio privato più alto al mondo (al netto della svalutazione e in % del reddito nazionale; come in Tabella).

Tutto questo ha tuttavia una spiegazione anche politica e in particolare di mancanza di una vera capacità di governo. Come si fa a prende decisioni importanti quando i governi durano in media poco più di un anno e mezzo? Anche perché si tratta sempre di maggioranze molto eterogenee e fortemente divise. Nell’ultima legislatura il governo “gialloverde” è stato seguito dal governo “giallorosso” e infine dal governo Draghi, chiamato da Mattarella in una situazione di emergenze evidente.

Questo problema nasce sia dalla legge elettorale che da un bicameralismo perfetto (che, quando va bene, raddoppia i tempi legislativi e dà spazio alle più diverse e contraddittorie pressioni). La cosa dunque più importante che bisognerebbe fare è una riforma sia del sistema elettorale, nel senso di assicurare una vera stabilità di governo (e quindi di “governance”), sia del sistema istituzionale, inclusa la burocrazia che fiancheggia il governo in carica e che dovrebbe rendere esecutive le leggi in modi efficienti ed efficaci, cosa che oggi non fa.

Qui dovremmo dunque aprire un discorso sulle riforme della politica, a iniziare dal sistema elettorale, anche perché soltanto un meccanismo elettorale capace di dare stabilità ai governi può cercare di realizzare in tempi ragionevole un vera riforma sia del bicameralismo perfetto sia della burocrazia. Ma di questo ci occuperemo in altra occasione.

di Nicolò Addario

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