Un occidente prigioniero

Con molta auto ironia, potremmo dire che questa non è una recensione, è solo un invito a leggere ma soprattutto a discutere. Non c’entra Andre Magritte. C’entra Milan Kundera.

Nelle scorse settimane, Adelphi ha pubblicato un libretto intitolato Un Occidente prigioniero che contiene due scritti di Milan Kundera. Il primo è il discorso tenuto nel 1967 al Congresso degli scrittori cecoslovacchi. Il secondo è un articolo uscito nel 1983 sulla rivista francese Le debat con il titolo Un Occident kidnappé che dovrebbe significare “rapito” piuttosto che “prigioniero”, ma vebbè. Il sottotitolo è la tragedia dell’Europa centrale. Ho trovato questo libretto molto, molto stimolante. Credo che ci aiuti a individuare qualche ragione in più per capire quanto sta accadendo oggi in Ucraina. Come mai si stia realizzando una tragedia umana di proporzioni così inaudite. Mai viste, almeno dal 1945, in quella piccola parte di mondo che è la nostra Europa.

Aggiungo una considerazione su un fatto che c’entra poco con il contenuto del libro ma che ha colpito molto una persona come me che ha raggiunto i tre quarti di secolo. La considerazione è che negli anni ‘60 e ancora, forse negli anni ‘70, nel cosiddetto Occidente ma anche nel resto del mondo, la letteratura, gli scrittori, le associazioni degli scrittori nei paesi cosiddetti socialisti, avevano un’importanza nella società che è oggi difficile spiegare. In quegli anni non era pensabile acquisire una coscienza, una consapevolezza del mondo che si viveva e che ciascuno di noi a suo modo stava scoprendo, senza passare dalle riviste letterarie. Gli scrittori, il dibattito tra gli scrittori, la critica letteraria, la lettura dei libri e dei romanzi, era un passaggio obbligato, non imposto da alcuno se non dall’ambiente sociale in sé. Erano le riviste letterarie ed erano i letterati il baricentro del dibattito sulla consapevolezza del tempo che si viveva. Oggi tutto questo non c’è più. Forse è spostato sui social e sull’intrattenimento televisivo, film, serie tv, infotainment. Ma certo il processo di assunzione di consapevolezza di sé nel mondo è del tutto diverso.

Ma non è questo il centro della mia riflessione di oggi. Oggi, senza nulla togliere al discorso tenuto nel ’67 (l’anno prima ella invasione sovietica) al congresso degli scrittori cecoslovacchi, vorrei richiamare l’attenzione soprattutto sul secondo testo che viene pubblicato nel libro di Kundera.

Partirei dal citare una frase che secondo me è centrale, dice Kundera: “ciò che accadeva a Praga o a Varsavia deve essere considerato nella sua essenza come il dramma non già dell’Europa dell’Est, del blocco sovietico, del comunismo, ma piuttosto il dramma dell’Europa centrale”.

Ecco l’invito a pensare all’Ucraina (che comunque non viene quasi mai citata direttamente), non solo o non tanto dal punto di vista dei problemi dell’oggi, quelli generati dalla invasione della federazione Russa, o dai problemi generati dall’implosione dell’Unione Sovietica; Kundera ci invita a ragionare sull’Europa centrale, nella sua interezza e storicità.

Per noi mediterranei, per noi italiani, al centro dell’Europa c’è Roma, c’è il Mare nostrum. Ma il cuore d’Europa, il centro vitale, è più a nord. Non solo o non tanto nel triangolo Parigi, Londra, Amsterdam! C’è quella terra piatta con poche barriere geografiche che separano popoli e culture, quella grande pianura che sta tra la Germania e la Russia.

Dice sempre Kundera: “l’Europa geografica quella che va dall’Atlantico agli Urali è sempre stata divisa in due metà che si evolvevano separatamente l’una legata all’antica Roma e alla chiesa cattolica (segno particolare, l’alfabeto latino), l’altra connessa a Bisanzio e alla chiesa ortodossa, (segno particolare l’alfabeto cirillico).”

La riflessione parte dalle vicende del ’56, l’invasione sovietica dell’Ungheria, dal racconto del direttore dell’agenzia di stampa ungherese che pochi minuti prima che il suo ufficio venisse distrutto dall’artiglieria sovietica, trasmise al mondo per telex un disperato messaggio che finisce con queste parole, “moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”. E Kundera si chiede, cosa intendeva dire? E trova una risposta che è molto interessante, non dico del tutto condivisibile ma certo da ragionarci su.

La riflessione di Kundera, siamo nel 1983, è tutta intrisa della preoccupazione per l’autonomia culturale, l’indipendenza, anche linguistica delle popolazioni compresse tra la Germania e la Russia.

Emerge, a mio parere, il problema che in quelle realtà, quel processo di nation building che si è vissuto con tante contraddizioni e peculiarità nella parte occidentale dell’Europa continentale prima del 900, non riesce a svilupparsi nell’Europa centrale: inizialmente a causa della Prima guerra mondiale, con la Rivoluzione bolscevica, e il successivo avvento del nazismo, e poi per via della Seconda guerra mondiale e l’accordo di Yalta che determinò la compressione di ogni autonomia da parte della Unione Sovietica.

Dice Kundera: “ai confini orientali di quell’occidente che è l’Europa centrale, siamo sempre stati più sensibili al pericolo della potenza russa “.

Questa per lui è una costante. E aggiunge “per questo l’Europa che chiamo centrale avverte che il mutamento del suo destino dopo il 1945 non solo è una catastrofe politica: è come se venisse messa in discussione la sua stessa civiltà. Il senso profondo della loro resistenza e la difesa di una identità o, in altre parole, la difesa della loro occidentalità.”

In questa frase sta forse la ragione per la quale l’editrice Adelphi ha deciso saggiamente la pubblicazione di questi testi. Viene reso evidente che dietro agli avvenimenti attuali della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina ci sono ragioni molto profonde.

Dice ancora Kundera: “la civiltà del totalitarismo russo è infatti, la radicale negazione dell’occidente quale era sorto agli albori dei tempi moderni: fondato cioè sull’ego, che pensa e dubita, e caratterizzato da una produzione culturale che di tale ego, unico e inimitabile era l’espressione.” Poi, Kundera arricchisce la sua riflessione con molti riferimenti affascinanti, alla cultura, alla pittura, alla musica. A me ha colpito particolarmente il riferimento all’autonomia delle lingue. Noi italiani che sul nostro territorio abbiamo avuto prima una lingua comune di uno stato nazionale forse siamo meno capaci di cogliere il dramma di cosa significhi non vedere riconosciuta la propria lingua, il proprio modo di descrivere le cose, di quello che ci serve per esistere come società, come comunità culturale. Quale sia la fatica di acquisire un’autonomia e un’indipendenza linguistica. In queste settimane abbiamo constato quanto la questione della lingua “ufficiale” per l’Ucraina fosse diventato un grandissimo problema, anzi, uno dei terreni di scontro frontale con la Federazione russa. Si tratta della lingua che si insegna ai bambini, alle scuole elementari e che si parla in tv, alla radio. Il medium fondamentale della socializzazione.

Conclude Kundera, siamo nell’83, lo ribadisco: “l’Europa centrale deve dunque opporsi alla forza schiacciante del suo grande vicino e insieme anche alla forza immateriale del tempo che lascia irrimediabilmente dietro di sé l’Europa della cultura.”

Qui trovo un tono scettico nei confronti delle nuove forme espressive che si stanno affermando in Europa e che lasciano da parte le forme tradizionali dell’espressione artistica, le forme dominanti dell’800 e del 900, nel campo della pittura o della grande musica (cosiddetta) classica. In questo Kundera mi pare un po’ nostalgico e pessimista, incapace di adattarsi al cambiamento che ha sempre visto l’Europa in prima linea e che non potrà che vedere ancora in prima linea l’Europa se la parola occidente vorrà significare ancora qualcosa.

Infatti, la sua conclusione è: “la vera tragedia non è dunque la Russia, ma l’Europa quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese nel 56, era pronto a morire ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale.”

Questo pessimismo nei confronti delle nuove forme artistiche mi convince meno mentre trovo che Kundera ci abbia lasciato una testimonianza che ci aiuta anche a comprendere meglio la problematicità della crisi che dovremo superare anche se al centro del processo di consapevolezza necessario per superarla non ci saranno più i romanzi e gli scrittori come una volta.

di Mario Rodriguez

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...