Amministrative 2022: più che il voto, a cambiare è il ruolo dei partiti.

Con un briciolo di sarcasmo potremmo dire che le elezioni amministrative del 2022 consegnano alla storia della Repubblica un risultato senza precedenti: hanno vinto tutti. Ha vinto il centrodestra che al primo turno ha conquistato 10 grandi centri urbani su 13, e alla fine 58 comuni con oltre 15.000 abitanti, contro i 53 del centrosinistra. Ha vinto pure il centrosinistra, il quale ha espugnato Verona e Monza, ribaltato il risultato a Catanzaro e infine resuscitato l’Ulivo, senza però archiviare definitivamente l’ipotesi del campo largo. Per essere più precisi, il Pd sta ora riscaldando i famigerati due forni nell’attesa di capire quale potrà dargli la fetta di parlamentari più ampia, lasciando intendere ai centristi che non abbandonerà Conte e a quest’ultimo che l’attuale alleanza è ora appesa a un filo, anzi, alla presenza o meno di una doppia cifra nel risultato delle politiche del 2023.

Nel frattempo, i centristi, Renzi e Calenda, ambedue vincitori, hanno potuto sperimentare come si sta sia con la destra, sia con la sinistra e infine coi candidati civici, nell’attesa di capire dove poter influire di più. I 5Stelle, invece, sono letteralmente scomparsi, fagocitati dalla propria scissione, dai troppi leader, o presunti tali, e dalla ormai cronica assenza sul territorio. Si scoprirà ciò che resta del fu movimento di Casaleggio e Grillo solo alle nazionali, che potrebbero però riservare un amaro calice sia agli alleati dei pentastellati, sia agli scissionisti e i loro derivati. Tuttavia, e nonostante la conclamata debacle, anche i 5S, proprio in virtù dell’alleanza col Pd, non si dichiarano del tutto sconfitti. Le liste civiche, infine, hanno brillato più di altri gruppi proprio grazie all’assenza del partito anti-sistema per antonomasia, potendo quindi allargarsi e promuovere dei candidati che poi, in alcuni casi, hanno persino sbaragliato la concorrenza. A conti fatti le urne restituiscono a commentatori e politici una sfilza di macchie di Rorschach buone per ogni genere di interpretazione e in cui tutti vedono riflesse le proprie ambizioni, nascondendo al contempo quei chiaro scuri di cui ogni illusione è intrisa.

Tuttavia, la vittoria di tutti si accompagna ad un prezzo salato ed è la sconfitta dell’elettore e dei partiti. Il primo preferisce l’astensionismo alla scheda bianca e la domenica al mare all’elezione del Sindaco della propria città. Un risultato questo, che dovrebbe far tremare le fondamenta delle segreterie partitiche, le quali invece, per bocca dei loro account Social, rispediscono ogni responsabilità direttamente al mittente: “se non voti è perché non ti frega”. Poco importa se solo una minoranza qualificata di voti al primo turno ed una ancora più risibile al ballottaggio decidano le sorti della partita: “è la democrazia, bellezza”. Quel che conta oggi è che ogni mancanza venga sempre reindirizzata altrove e giammai nell’assenza di un’identità politica credibile e men che meno nell’incapacità di elaborare strategie e programmi di lungo respiro. Neppure la scarsa, se non nulla, presenza sul territorio, da cui dipende anche l’incapacità ormai certificata di far crescere una classe dirigente nell’alveo del proprio partito è più ritenuta una responsabilità.

Eppure, a guardar bene, i partiti dovrebbero trarre insegnamento proprio da queste debolezze. Al di là degli alibi, infatti, i partiti di oggi si stanno trasformando, spesso loro malgrado, in talent scout e ciò che bramano di più è qualcuno che sia riuscito costruire un capitale simbolico consistente e il più ampio possibile presso la comunità ove si vota. Questioni come “il simbolo” e “il programma” contano sempre meno, se non nulla, tant’è che c’è persino chi il vessillo d’appartenenza non lo vuole neppure vedere. Nel loro insieme queste elezioni amministrative aprono quindi la via a una nuova forma di personalizzazione della politica, ove il marchio del partito conta sempre meno. Bonaccini, Sala, Guerra e Tommasi lo dimostrano. Chi li ha votati ha infatti scelto la persona, non di certo la segreteria del Pd, che tra l’altro durante questa legislatura ha subito più di un cambio di leadership e una miriade di riposizionamenti nei confronti delle proprie battaglie identitarie, nonché di quelle parlamentari. E si può estendere tale riflessione anche alle forze del centrodestra, perché come dimostra il caso di Bucci a Genova è stato riconfermato il Sindaco della ricostruzione del ponte Morandi, colui che ha saputo trasformare la tragedia in riscatto, e non l’esponente sostenuto dalla destra unita.

Il tempo in cui i leader di partito andavano a rinvigorire il proprio consenso dai Sindaci sul territorio è finito, ora avviene l’esatto contrario. È il leader di partito che riabilita la sua credibilità facendosi fotografare col candidato e questo fatto rappresenta uno stravolgimento topografico radicale nel mondo della politica. E in alcuni casi come a Verona, il candidato non ha nessuna voglia di fare iniziative con il leader di partito, anzi se ne tiene a distanza. Le coordinate sono cambiate e la partita per le elezioni si determina sempre di più nella fase preliminare, quella della scelta del candidato, il quale a sua volta ha già partecipato a una selezione, assai più silenziosa e lunga, basata sul consenso riconosciutogli dalla propria città. Ed è anche per questo che ora sono i centri urbani, la società civile, a rivendicare il ruolo di modellatore della politica. 

Di fronte a questo tsunami dei ruoli emergono due grandi problemi, il primo è quello che riguarda i neo-eletti, mentre il secondo investe in toto proprio i partiti. I neo Sindaci e i presidenti di Regione, si ritrovano oggi a governare con un consenso spesso inferiore al 50% degli elettori: una spada di Damocle che prima o poi rischia di trafiggere qualunque leader e bloccare la macchina amministrativa. Ciò significa che per sfuggire a questo destino chi viene eletto dovrà trovare dei modi nuovi per coinvolgere chi alle urne non c’è proprio andato, altrimenti il rischio sarà quello di ritrovarsi ben presto a giocare una partita di scacchi con gli occhi bendati. Una sfida, questa, di per sé difficile per chi già conosce strategie e mosse dell’avversario, ed impossibile per chiunque non sia del mestiere. Per i partiti, invece, il problema riguarda il cambio di ruolo. Potrà sembrare assurdo, ma l’elettore esiste ancora ed è in attesa di risposte, dall’inflazione al precariato, passando dalla sanità pubblica alle tasse, ma più passa il tempo più egli avverte sia l’inconsistenza del proprio voto, sia dell’azione inefficace (più frequentemente dell’inazione) dei partiti stessi. Purtroppo, ad oggi mancano dei registi che sappiano interpretare e dirigere al meglio la politica, soprattutto in un momento come questo, dove l’incertezza è l’unica realtà che abita il presente. E prima i partiti capiranno il nuovo ruolo e ciò che devono fare per liberare le energie presenti nella società civile, prima le persone torneranno a votare, riscrivendo così quel destino che al momento sembra inciso nella pietra e in avanzata fase di lettura.

di Mario Rodriguez e Claudio Dolci

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