La recente tornata elettorale delle elezioni amministrative ha sanzionato una cosa che si intravvedeva da tempo, ossia la larga insoddisfazione dell’elettorato nei confronti di tutta l’offerta politica. Come è stato osservato da Claudio Dolci e da Mario Rodriguez, “hanno vinto tutti”, quindi hanno perso tutti. C’è infatti stato un livello di astensionismo come non si era visto dalla fondazione della Repubblica. Forse converrebbe che i partiti tutti si sforzassero di capirne le ragioni, anche perché è assai probabile che anche alle prossime elezioni politiche ci sia altrettanto elevato livello di astensionismo (come peraltro già segnalano i sondaggi). Qui provo a dare qualche suggerimento, ammesso che possa interessare, visto che tutti i politici sembrano intensamente fissati a guardare solo il loro ombelico.
Per sintetizzare, la tesi di fondo è che la “transizione” alla “Seconda Repubblica” (dopo il crollo della Prima nei primi anni Novanta) non solo non si è mai realmente conclusa, ma è precipitata nel guazzabuglio più incredibile, culminato nel passaggio dal “governo giallo-verde” (due populismi che sino a qualche giorno prima quasi si insultavano) al governo “giallo-rosso” (dove l’anticasta governava con la casta!) per arrivare, grazie a Mattarella, al Governo d’emergenza di Draghi. L’astensionismo delle Amministrative è dunque stato soltanto la sanzione di una crisi della politica che durava da parecchi anni e che le lezioni del 2018, con l’esplosione di consensi ai 5S, avevano solo mascherato, ma in realtà aggravandola. Le ricette miracolose di ogni populismo possono solo portare guai ulteriori, come infatti è puntualmente accaduto.
Ricordiamo che per “transizione alla Seconda Repubblica” si intendeva di dover pervenire ad un sistema politico che fosse capace di assicurare la “governace” per una intera legislatura (possibilmente per almeno due) e sulla base di un programma di governo chiaro e coerente, in modo che i cittadini potessero valutarne l’efficacia, il chiaro raggiungimento (o meno) degli obiettivi prefissati e i loro effetti. Tra l’altro i problemi economici e sociali (le forti disuguaglianze) dell’Italia erano ben noti da tempo (ne ho parlato a proposito dei salari che sono i più basi d’Europa in un recente articolo su queste pagine), così come erano ben note le cause di cui la principale era stata appunto l’assenza prolungata di vera capacità di governo quale che fosse il suo colore, perché costituito da coalizioni eterogenee e troppo frammentate la cui durata è stata di poco più di un anno e mezzo. Così, invece di pervenire a uno stabile assetto di governabilità, la politica ha finito per acuire i gravi difetti della Prima Repubblica, con l’aggravante che nel frattempo la crisi economica e sociale si è sempre più acuita. La disaffezione dei cittadini è così grave che i primi a essere colpiti sono stati proprio i vari populismi, iniziando dalla Lega sino all’attuale disgregazione dei grillini. Le fibrillazioni politiche sono peraltro ancora in corso e non è escluso che precipitino nel baratro di una nuova crisi di governo.
Diciamo allora che la mancanza di capacità di governo ha acuito la crisi economica e sociale e questa, a sua volta, ha esacerbato la crisi della politica, portando a un circolo vizioso che si avvita su se stesso. L’iniziale successo del populismo (o meglio, dei populismi) è stato probabilmente l’effetto iniziale di questa crisi ad un tempo politica e sociale, che l’incompiutezza della Seconda Repubblica, con la sua sistematica incapacità di governo, ha finito con l’aggravare, nonostante Draghi. Era inevitabile che col tempo i miracoli promessi dai populisti provocassero una profonda delusione. Ma a queste promesse miracolose si sono aggiunti la pochezza e le divisioni interne agli altri partiti. Tanto più che l’appello salvifico ai “grandi valori” delle ideologie politiche del secolo scorso (tanto a destra quanto a sinistra) è svanito senza essere stato sostituito con una cultura politica basta su un vero riformismo liberale (anche perché queste ideologie non sono mai state oggetto di pubblico ed esplicito ripensamento). E infatti nessun governo ha proposto e neppure pensato le riforme che sarebbero state e sono necessarie. Forse perché toccherebbero alcuni interessi consolidati che si oppongono? O semplicemente perché, nel cercare di rincorrere ogni possibile consenso, i partiti non riescono a guardare al di là del loro ombelico?
Se questo è il problema di fondo, l’attuale tentazione dell’area che gravita intorno al PD di andare verso un sistema elettorale integralmente proporzionale, non potrà che aggravarlo perché qualsiasi coalizione risultasse vincente sarebbe troppo divisa al suo stesso interno, cosa che l’attuale crisi internazionale (il ritorno ad una sorta di guerra fredda tra Occidente e Oriente) non potrà non approfondire, rendendola estremamente pericolosa.
Sui grandi vantaggi di un sistema elettorale capace di assicurare la “governance” mi sono espresso su un artico (insieme a L. Fasano e M. Rodriguez) apparso giorni fa su Linkiesta. Oggi, dopo i risultati elettorali per l’elezione dell’Assemblea Nazionale, avrei qualche dubbio nel suggerire il sistema francese (che, tra l’altro, richiederebbe un assetto presidenziale per poter funzionare veramente). Viste le condizioni italiane sarebbe forse meglio il sistema Westminster, che per natura tende a ridurre fortemente l’impatto dei piccoli partiti e a formare governi monocolore o di coalizione estremamente ridotte. In Inghilterra raramente sono capitati governi di coalizione, ma in ogni caso si trattava di soli due partiti. Il modello elettorale è infatti un maggioritario a collegio uninominale, cosa che tra l’altro, oltre a ridurre drasticamente la frammentazione politica, tende ad avvicinare tra loro i centri dei due partiti maggiori, mentre in Italia si tende ancora a delegittimare gli avversari politici. Ovviamente è solo un’ipotesi da approfondire, ma bisognerebbe farlo veramente. Soprattutto dovrebbero farlo i partiti.
Per essere più precisi, “governance” significa reale capacità di decisione sulla base degli interessi più rilevanti del paese e tenendo conto dei fattori di fondo che sono alla base sia della crisi economica sia della crisi dei partiti. La verità e che non c’è vera rappresentanza senza “governance”. Tanto più se si considera che la globalizzazione è caratterizzata da processi che vanno ben al di là delle capacità d’intervento dei singoli stati nazionali (soprattutto in Europa) e che perciò sarebbe necessario lavorare quantomeno a livello europeo e in modo molto più efficace di quanto non si sia stati in grado di farlo sino ad oggi (seguendo un modello simile agli interventi dell’Unione Europa a seguito della pandemia). Inoltre, si deve tener conto che, soprattutto in momenti di crisi come questa, la politica è costretta a fronteggiare una marea di richieste e a subire pressioni di ogni tipo e continuamente mutevoli e che, dunque, con un sistema politico frammentato come il nostro la piaga dell’ingovernabilità (anche per un debito pubblico che si aggira intorno al 160% del PIL) sarà costretta a perdurare, con conseguenze immaginabili che potrebbero portare a un vero collasso. La delegittimazione dei partiti potrebbe anche portare alla delegittimazione della democrazia come tale.
di Nicolò Addario