Processo Eni-Nigeria: storia di ordinaria follia

Un antico proverbio africano nato tra Ghana, Benin e Togo e poi diffusosi in molte altre parti del continente, recita così: “Finché i leoni non cominceranno a raccontare le loro storie, i cacciatori saranno sempre gli eroi”. Se ai leoni, infatti, fosse data la possibilità di raccontare la loro versione dei fatti, molte storie di caccia apparirebbero sotto una luce diversa. 

Nel corso degli ultimi 30 anni è stata narrata solo la storia dei “cacciatori” della veneratissima Procura di Milano, le cui gesta sono state cantante, osannate e replicate all’infinito da giornalisti e testate ammiccanti e compiacenti: avvisi di garanzia branditi come armi, titoloni in prima pagina e scoop giornalistici, intere trasmissioni televisive, persone messe alla gogna e condannate nel processo mediatico sulle quali si è posato lo stigma sociale scaturito dal racconto accusatorio, le cui vite private e professionali sono state distrutte, quando non culminate nel gesto autolesionistico estremo. 

E così, dopo otto anni di accuse, cause, spese folli, con il solo obiettivo di distruggere l’immagine di un’azienda strategica che è eccellenza e fiore all’occhiello dell’Italia, e del suo management, il processo Eni-Nigeria per corruzione internazionale per una presunta tangente di oltre 1 miliardo di dollari che sarebbe stata pagata da Eni e Shell ai politici nigeriani per aggiudicarsi i diritti di esplorazione del blocco Opl-245, alla fine si è risoltodefinitivamente in un nulla di fatto, sciolto come neve al sole.  Sì,perché dopo l’assoluzione in primo grado di tutti gli imputati perché “il fatto non sussiste”, la parola fine arriva direttamente dalla Procura Generale di Milano. In apertura dell’udienza che avrebbe dovuto celebrare il processo d’appello, arriva il colpo di scena, quel finale che non ti aspetti, che nella storia della giurisprudenza italiana ha rari precedenti: la sostituta procuratrice Celestina Gravina non soltanto rinuncia al ricorso in appello chiedendo la conferma della sentenza di primo grado con la declaratoria di passaggio in giudicato, ma sconfessa in maniera inequivocabile, netta e perentoria l’operato dei Pm che hanno imbastito il caso, un vero e proprio j’accuse: “Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo”. “Gli imputati che hanno patito un processo hanno diritto di veder cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem”. “Mancano le prove in questo processo e i binari di legalità del processo sono corrispondenti al diritto delle persone in questo Paese a non subire processi penali quando non sussistano i presupposti di legge”. “Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento”.

L’epilogo di questo processo è solo l’ultimo di una lunga serieterminati con assoluzioni passate poi in sordina, senza che l’onorabilità delle persone venisse ristabilita, ricostituita e lo stigma cancellato. Chi pagherà per tutto questo, per l’immane danno morale, d’immagine, economico e, non ultimo, di credibilità della giustizia stessa? Per quanto tempo ancora i cittadini onesti che finiscono per vari motivi tra le maglie della giustizia, dovranno subire un calvario e un supplizio simili, e troverà finalmente applicazione non solo nelle parole, ma anche nei fatti, l’art. 27 della Costituzione: “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”?

di Gianvito Tumbarello

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