Ma davvero pensiamo che si voti in base ai programmi dei partiti? Davvero possiamo credere che la gente legga le promesse elettorali (di destra e di sinistra, è quasi indifferente) e decida in base alla valutazione dei pro e dei contro dei vari programmi, come se dovesse scegliere – che so – una lavatrice o un televisore? Questo no, non è classe A, quella sì perché consuma meno energia, ha il cestello più comodo… Benvenuti al mercato della politica!
Partiamo da un assunto di base. L’Italia è il Paese UE dove ci sono meno laureati (penultima col 27 per cento dei 30-34enni contro, ad esempio, il 47 per cento della Francia), e anche quello dove secondo recenti statistiche (dati Invalsi 2022, su cui si è a lungo polemizzato) il 44 per cento dei giovani tra i 15 e i 18 anni non comprende un testo scritto, e il 50 per cento non ha un accettabile livello di comprensione di problemi matematici. Al di là del problema delle competenze reali, e del fatto che l’espressione del voto, un gesto politico e di libertà, non può e non deve essere legato alle proprie conoscenze e competenze (come pure alcuni scienziati di politica auspicherebbero, fra gli altri Tom Nichols), qualche valutazione merita di essere fatta. Sono in grado i cittadini italiani di comprendere fino in fondo i programmi dei partiti e le loro seducenti (spesso mirabolanti) promesse?
I programmi dei partiti sono diventati progressivamente importanti e parte rilevante della loro presentazione all’elettore dopo la fine della cosiddetta prima Repubblica, cioè dopo il 1994. Con l’avvento sulla scena politica del più illustre sostenitore del candidato-saponetta, Silvio Berlusconi, il dilagare dei talk-show televisivi e gli scontri televisivi in luogo della vecchia e soporifera “tribuna politica”, la contesa elettorale diventa il centro della vita politica del Paese. Non importa come si governerà e con chi, quello che conta è “vincere”. Vincere, cioè far vendere il prodotto-politica. Per questo, nella campagna 2001, che segna la vera svolta in favore del mito-Programma (di partito), Berlusconi offre la sua firma sotto il Contratto con gli Italiani, in diretta televisiva con Bruno Vespa negli studi di Porta a Porta, diventato – come è stato chiamato – la Terza Camera dello Stato.
Il Contratto, una tipica forma privatistica, riduce il governo di un Paese a un patto tra il capo e il suo popolo, senza minimamente tener conto né delle forme della Costituzione (dopo tutto siamo ancora una Repubblica parlamentare, dove le maggioranze si formano in Parlamento, e non sono scelte direttamente dal popolo) né della realtà esterna a cui è sottoposto un governo. Io voto per un programma (nel nostro caso, il contratto del 2001), e pretendo, dopo il voto, che gli impegni siano rispettati; sempre ben inteso ammettendo che il firmatario del contratto vada effettivamente al potere “da solo” o comunque con una maggioranza in grado di consentirgli di realizzare gli obiettivi previsti dal contratto.
Ma… e se capita qualcos’altro di inaspettato, che so, una pandemia, una guerra in Ucraina, un’inflazione galoppante dalla sera alla mattina, un insieme di shock energetici che ci costringe al buio o a strapagare gas e corrente elettrica? Come si comporterà quel governo per cose che non sono scritte nel Programma – pardon – nel Contratto? Chissà! Dovrebbe agire secondo i propri “valori” di riferimento… vogliamo chiamarle “ideologie”? O secondo brutali calcoli di convenienza “pragmatica” politico-economica (e ci risiamo: basati su cosa?).
Nel frattempo, dal 2007 entra in gioco l’iPhone. Dal 2008 arriva in Italia Facebook, l’anno dopo Twitter, infine, nel 2017, TikTok, social network cinese che conquista subito il pubblico giovane. I cosiddetti “social media” sono una rivoluzione, soprattutto per la politica, e una rivelazione per alcuni politici italiani che ne comprendono immediatamente le potenzialità. La televisione la guardano i vecchi (che però ancora votano), Internet è per una generazione di mezzo che sta in ufficio (superati anche loro, però votano, e forse leggono i programmi), i social media sono terra di conquista. Messaggi brevi, fulminanti, meglio se piccoli video, ognuno può diffondere il suo messaggio a milioni o miliardi di esseri umani. Non c’è più tempo per le spiegazioni. “Prima gli Italiani” o “America first” sono messaggi che riassumono decine e decine di pagine di programmi. Cosa non è chiaro di questi proclami iper-sintetici?
Ci ha provato anche don Milani – anticipando di molto la rivoluzione dei social media – con il suo mitico “I care” (cioè il contrario del fascistissimo “Me ne frego!”). Cosa di più iconico? Si capisce di più se dico “per un’Italia democratica e progressista”? Il primo messaggio (I care) racchiude un universo di attenzione ai deboli, una piattaforma intrinsecamente di sinistra. Il secondo messaggio, ora nel simbolo PD, potrebbe essere di chiunque. Chi si professerebbe “non democratico”? Neanche Putin. O chi non è progressista? Ma se perfino il partito europeo dei Conservatori ha aggiunto “e Riformisti”! Già, è vero che progressisti forse non è la stessa cosa che riformisti, ma è una differenza che capirebbero solo dei laureati in scienze politiche con decenni di formazione accademica. Se lo chiedete a un pensionato o a un neodiplomato vi dirà – ammesso che lo capisca, vedi le prove Invalsi 2022 – che sono la stessa cosa. Sinonimi.
E allora? Riassumiamo:
- In un tempo come l’attuale, dove l’attenzione media è di 8 (otto) secondi, pari a quella di un pesce rosso – da un’indagine Microsoft, ripresa in un bel libro di Lisa Iotti “8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione” – ogni testo più lungo di una pagina dattiloscritta è destinato inevitabilmente al cestino o alla non lettura.
- In un tempo così, gli unici messaggi politici che la gente può capire sono “I care”, o “Prima gli Italiani”. Ogni frase in più è destinata solo a complicare le cose, e a favorire le incomprensioni. Quindi i programmi – ancorché previsti dalla legge – devono essere i più brevi possibili. Eppure… Oggi il centrodestra – pardon, la destra – ha un programma di quindici punti. La Lega, per distinguersi, ha esagerato, con un programma di 200 pagine. Il centrosinistra – pardon, il centro-sinistra col trattino (il centro è il PD) – uno di 32 pagine pur essendo partito da “tre pilastri”, con 44 tesi, che sono esattamente la metà delle 88 tesi del primo programma dell’Ulivo del 1996! Speriamo che porti più fortuna…
- In una situazione così, dove i programmi li scrivono i politici con i loro spin-doctors, l’elettore sarà portato a scegliere per simpatia personale, per schieramento di abitudine, per la parola giusta all’ultimo momento. Non certo valutando i pro e i contro di ogni programma. Ah, qui puntano sulla sicurezza, allora voto destra. Ah, no, qui mi danno mille euro al mese di pensione, allora voto FI. O voglio più soldi sul reddito di cittadinanza, e allora voto M5S. Ma va’!
In conclusione, ognuno di noi, nelle diverse stagioni della vita, o magari no, per sempre, secondo la sua formazione e le sue esperienze personali, matura (o no) una convinzione personale. Vogliamo chiamarla “ideologia”? Ognuno di noi è di destra o di sinistra (o anche di centro, perché no, esistono anche loro), e vota di conseguenza. E’ un atteggiamento mentale presupposto, che incrocia poi i candidati esistenti sul terreno. Quindi può adeguarsi, a volte, e diventare pragmatismo (voto per quello che in questo momento mi conviene di più, o – magari – per quello che conviene di più all’Italia), ma prima o poi “la campana suona per tutti”. E chi è conservatore o reazionario voterà a destra, chi progressista o riformista voterà a sinistra. Rosso o nero con tutte le infinite sfumature. E pure chi si professa “né di destra né di sinistra”, credendo che un Paese sia come un condominio, che basti amministrarlo correttamente, finisce per fare il gioco dell’uno o dell’altro schieramento. Sì, perché un Paese non è né un’azienda, né un condominio, né un comune. E governarlo significa ben più che amministrarlo: “I care”. O no?
di Roberto Guardaboschi