Apple sta già correndo ai ripari: secondo la rivista giapponese Nikkei Asia, i prossimi chip degli iPhone saranno marchiati “Made in Taiwan-China” o “Made in China”, e non più “Made in Taiwan”. Un segnale inequivocabile che i tempi cambiano. E che per continuare a vendere iPhone in Cina (considerando che oggi solo il melafonino fa fare utili a Apple) bisogna accontentare il governo cinese, riconoscendo il suo buon diritto a incorporare nella madrepatria l’isola già nota come Formosa. In altre parole, la multinazionale di Cupertino si adegua alla situazione geopolitica che Pechino vorrebbe definita ben prima del 2049, quando è prevista l’annessione di Taiwan alla madrepatria. Cioè a cento anni dalla separazione dell’isola di Formosa (Taiwan), dove si erano rifugiate le truppe del nazionalista e anticomunista Chiang Kai-shek, nel 1949, mentre la Cina continentale era ormai nelle mani delle truppe comuniste di Mao Zedong.
Non è solo l’interesse commerciale di non perdere un mercato immenso a spingere Apple in questa direzione, ma anche la consapevolezza che ancora per un decennio il mercato dei chip, cioè dei semiconduttori che sono il cuore di ogni apparato elettronico, sarà appannaggio all’80 per cento di Cina e Taiwan. E la Cina ha fatto incetta in questi ultimi anni di terreni, soprattutto in Africa, con miniere di terre rare, la materia prima per costruire i chip. Secondo alcuni osservatori, la Cina potrebbe essere in grado di tenere in pugno il mondo (occidentale) semplicemente chiudendo i rubinetti della produzione di terre rare o della consegna di chip.
L’Occidente, che ha improvvidamente delocalizzato (in Cina o paesi del Far East) tutte le sue produzioni industriali ed eliminato tutte le miniere, così inquinanti e pericolose, può ritrovarsi dalla sera alla mattina senza apparati elettronici, senza telefonini, senza automobili, elettrodomestici, e tutto quanto contiene semiconduttori. Se aggiungiamo che potremmo non avere più gas (grazie alla Russia) e avere grossi problemi di produzione di energia elettrica (che in molti paesi è fatta col gas), ne consegue che sarà molto difficile per l’Occidente e soprattutto per l’Europa difendere i suoi valori, la sua civiltà, la democrazia, i diritti. Se manca l’energia elettrica può esistere la civiltà, la democrazia?
Servirà rivedere uno di quei film catastrofici che andavano di moda negli anni Settanta, dopo il primo shock petrolifero del 1973 (quello delle domeniche a piedi): “2022: i sopravvissuti” (nell’originale, “Soylent Green”), con il grande Charlton Heston. Si immaginava che cinquant’anni dopo il mondo sarebbe stato travolto da eventi naturali come riscaldamento globale, siccità, mancanza d’acqua e di cibo (a proposito, la Cina ha fatto incetta di grano su tutti i mercati e continua ad acquistare e gestire terreni agricoli in Africa, per una produzione dieci volte quella necessaria a soddisfare il suo miliardo e mezzo di abitanti).
In mezzo a questo scenario, arriva un giorno di agosto la visita a Taiwan di Nancy Pelosi, speaker della Camera USA. Un chiaro segnale di riconoscimento e appoggio all’indipendenza dell’isola. La Cina reagisce sopra le righe, minacciando reazioni militari, che arrivano sotto forma di esercitazioni al largo di Taiwan “con munizioni vere”. Gli americani reagiscono schierando una flotta di attacco con la portaerei Ronald Reagan, e da ultimo le forze armate taiwanesi decidono a loro volta di fare un’esercitazione “con munizioni vere”. Come dire: se per caso ci scappa un incidente, può succedere di tutto. Secondo l’ISPI e la maggior parte degli analisti di geopolitica, la mossa della Pelosi, oltre a imbarazzare Biden (che le aveva chiesto di rinunciare), sarebbe stata controproducente perché avrebbe spinto la Cina ad alzare un muro nei confronti dell’Occidente, e quindi ad aiutare la Russia in difficoltà in Ucraina. Oltre a rovinare ancora di più i rapporti già pessimi tra Cina e Stati Uniti. Così è stato, e tutti i timori degli analisti si sono avverati.
Solo Federico Rampini, il più attento osservatore delle mosse della Cina, con uno sguardo più strategico, ha valutato che in fondo la Cina sta raggiungendo i suoi obiettivi con una innocua (?) esercitazione. Oltre a dispiegare la sua potenza militare, ora non più così inferiore a quella americana, la Cina ha di fatto bloccato il mare e il cielo attorno a Taiwan. Le compagnie aeree civili hanno sospeso i voli, la navigazione commerciale è stata praticamente sospesa: si tratta di un blocco aeronavale in piena regola, che potrebbe strangolare la fragile economia dell’isola, dipendente dall’importazione di materie prime, e costringerla ad accettare, prima o poi, una strisciante annessione alla Cina.
Ricorda giustamente Rampini, che la Cina, vera e propria enciclopedia vivente di geopolitica, agisce secondo schemi strategici di lunga, lunghissima durata, e secondo una tradizione filosofica millenaria, pur essendo formalmente comunista. Senza cibo, senza materie prime, senza chip, cioè senza elettronica, e forse senza neanche più energia elettrica, chi mai in Occidente potrebbe resistere un giorno contro una potenza ricca di tutto questo? Il mantra cinese è in fondo quello del grande generale e filosofo Sun Tzu (VI sec. a.C.), per il quale “l’arte della guerra è sottomettere il nemico senza combattere”.
A proposito, Apple sta spostando la produzione di AppleWatch e MacBook dalla Cina al Vietnam…
di Raffaele Raja