La politica del declino

Questa volta non ce n’è per nessuno, né per chi segue la politica con passione, né per chi la conosce solo attraverso lo scroll dei propri Social: ne escono tutti sconfitti. I primi, ovvero i militanti, quelli che ancora leggono i giornali e si infervorano quando sentono parlare di politica, quindi di tutto, sentono già il peso della sconfitta e la delusione per una campagna elettorale che si poteva vincere. I secondi, invece, sanno già che verrà addossata a loro la responsabilità per la vittoria della destra, ignavi e quindi colpevoli di non aver preso parte alla blitzkrieg del centrosinistra per salvare l’Italia dal buco nero. Ma in realtà il dramma è che né i militanti, né i disertori possono assolvere le colpe dell’attuale classe dirigente da sé stessa.

Gli errori sono stati troppi e gestiti a colpi di supercazzole buone solo per il gioco delle tre carte. Nessuno dei principali partiti si è presentato alle urne facendo un mea culpa per una legge elettorale indegna (poiché toglie potere all’elettore) e di un taglio dei parlamentari votato sull’onda del populismo (foriero dei posti bloccati per amici e parenti). Ed è troppo facile dare la colpa a chi c’era prima, quando nel mezzo ci sono state almeno tre legislature, così come lo è invocare il voto utile dopo aver compromesso alleanze e programmi davvero utili alla vittoria. Oggi il Pd, unico argine per numeri a FdI, si presenta alle urne senza un’identità di sinistra, un programma davvero ecologista e soprattutto la credibilità necessaria a richiamare a sé i tanti disertori delle urne, quelli che “chi se ne frega della politica, io ho le bollette da pagare”.

Dal 1996 ad oggi le fila di chi diserta le elezioni sono aumentate di un 10% e solo qualche settimana fa il Corriere, metteva in luce come il 51% degli italiani avesse sin qui seguito poco o per nulla la campagna elettorale. Con questi numeri è più che probabile che quest’anno si infranga un altro record, in negativo, da parte degli astensionisti. E d’altronde come dar torto a chi ha appeso la tessera elettorale al chiodo? L’80% dei programmi sull’ambiente è priva di coperture, e va comunque meglio rispetto alle pensioni, là dove ad essere sguarnite sono il 95% delle proposte, per non parlare poi delle assunzioni del settore pubblico; chi le paga? Ogni partito promette ciò che sa di non poter mantenere (come la Flat-tax) o la scuola per tutti (mancano da sempre strutture e insegnanti) e peraltro facendo finta che si tratti di novità epocali quando semmai è vero il contrario. Già Veltroni prometteva pannelli solari sulle case di tutti gli italiani, ma né il Letta I, né Renzi, né Gentiloni, né Zingaretti, né Letta II hanno mantenuto questa promessa, e si tratta sempre dello stesso partito.

Troppe volte l’elettorato di centrosinistra è stato chiamato a votare per salvare l’Italia dal baratro, per poi scoprire i propri parlamentari a braccetto con Verdini, Alfano, Salvini, Toninelli, giusto per citare quelli di primo piano, e oggi, a giudicare dalle immagini del Meeting di Rimini e di quelle del confronto al Corriere tra Meloni e Letta, c’è persino lo spettro che i principali partiti possano sostenere una maggioranza Ursula (magari un Pd e FdI, come già caldeggiato da Panebianco). Inverosimile? Dopo le dichiarazioni di Letta sul non governo con Fratoianni, tutto è possibile; anche a destra Salvini e Meloni stanno dando segnali di cedimento. Il Capitano continua a scambiare lucciole per lanterne, persuaso ancora dall’idea che la sua ascesa al potere, nel lontano 2019, fosse frutto del proprio talento e non del fato che guida la mano del mazziere. Meloni, invece, consapevole che la dea bendata ha scelto lei, non vuole ostacoli sul suo cammino e continua a giocare su quell’illusione che impedisce ai proprio elettori di cogliere le incoerenze di fondo, che pur ci sono e sono visibilissime: pro-Nato di domenica e amica di Orban nei giorni feriali, ligia nei confronti del Fiscal Compact quando parla a Bruxelles e pro-Europa confederale al di là dell’ex cortina di ferro, contro le coppie Lgtb+ in Andalusia ma a favore dell’amore e dei diritti (basta capire di chi…) di fronte alle telecamere del Corriere. Non che vi siano meno incoerenze a sinistra, anzi, e lo sanno bene i militanti, umiliati da una classe politica accecata dal potere e dall’odio reciproco, che prima annuncia e poi disfa alleanze e promesse sulla base del dividendo elettorale del giorno, incurante del domani e di chi, in prima persona, dovrà fare da argine alle critiche e diffondere il dogma del momento nella propria sfera d’influenza. Mai coi 5Stelle, mai con Azione e Renzi, mai con Meloni e così via. C’è chi dirà che questa è la vera politica, ma ormai chi la capisce più? Forse neppure quelli che ne tessono le lodi e osannano i burattinai dietro le quinte.

Nei fatti, i militanti sono perlopiù frustrati e allibiti dalle continue giravolte di chi, grazie a una legge elettorale priva di paternità, ha blindato la solita classe dirigente inconcludente; gli astensionisti, invece, già intravedono la fregatura dietro l’angolo, annunciata nottetempo dalle neo-dimissioni di Amato. Ora, visto il quadro, perché l’elettore disinteressato dovrebbe andare a votare? E perché il militante dovrebbe innamorarsi nuovamente di un progetto politico?

La risposta è simile per entrambi. Chi oggi è disinteressato dalla campagna elettorale dovrebbe aver già capito da tempo che a contare davvero è il nome sulla scheda e non è il simbolo, il programma o il leader di coalizione. A votare le leggi è il Parlamento e chi ci va è eletto dai cittadini, punto. Se proprio il nome imposto dall’alto dal partito di turno genera reflusso, ed è comprensibile, può comunque valer la pena recarsi ai seggi e mettere nell’urna una scheda bianca o, per i più maliziosi, una scarabocchiata, perché il dissenso è tale solo quando si manifesta, non quando tace, perché altrimenti si tramuta nel suo opposto, l’indifferenza. Per i militanti, invece, urge la necessità di dotarsi di un pensiero critico utile per ogni stagione della vita e non solo durante la campagna elettorale. Una legge sbagliata lo è a prescindere da chi la proponga e vale il contrario quando a predominare è il senno. Senza un passo di lato che aiuti la formazione di una critica davvero costruttiva sul funzionamento della partitocrazia e sulle ragioni dell’elettore (ignavo sì, ma scemo no), il rischio che corrono le nuove leve è quello di seguire in gregge il tweet del proprio capo partito senza affrontarne gli errori del passato e del presente, e porvi quindi rimedio. Finché il dibattito dei partiti si perpetuerà, con le stesse argomentazioni, anche fra chi non ricopre alcuna carica pubblica ma vive la politica come se ne avesse una, allora le sorti della classe dirigente di domani saranno solo la prosecuzione, stavolta come farsa o tragedia, di quella odierna; né più né meno.

di Claudio Dolci

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