L’Opec+ ha svoltato a favore del multipolarismo e consegnato così Joe Biden a un’elezione di mid term sempre più incerta, perché se c’è una cosa che sa bene ogni presidente americano è che il prezzo del petrolio non deve mai, per nessuna ragione, superare i 100$ al barile, altrimenti sono guai.
Per sfortuna di Biden però, il dado è ormai tratto e in virtù di un’analogia con le Banche Centrali che impone a Riyadh & Co. di scongiurare il crollo della domanda di greggio post Grande Recessione e quello che si verificò nel 2020 con la pandemia. Se il mondo rallenta, questo è il ragionamento dell’Opec+, occorre frenare la domanda prima del baratro, così da non ritrovarsi con i magazzini stracolmi di barili che nessuno vuole. D’altronde, l’aumento dei tassi sta spingendo il mondo verso una recessione, la cui durata dipenderà dagli investimenti fatti in tempi di crescita (crescita che in Italia non si è quasi mai vista).
Un’altra ragione che spinge l’Opec+ a reagire così duramente, riducendo la produzione di 2 milioni di barili al giorno, deriva dalle parole pesanti (“pariah”) che Biden usò nei confronti del Regno di MBS dopo la morte del giornalista Jamal Khashoggi, a cui seguirono poi i mancati accordi sul nucleare iraniano e le sanzioni alla Russia (membro dell’Opec+).
Ci dobbiamo preoccupare? Purtroppo sì e soprattutto sul breve periodo. L’Opec+ ha infatti sì ridotto la produzione, ma questa era già in calo, tant’è che secondo Bloomberg il taglio reale sarà intorno agli 880.000 barili al giorno e non di 2 mln annunciati. E sempre ieri l’Ue ha varato l’ottavo pacchetto di sanzioni contro la Russia, introducendo un price cap al petrolio moscovita il quale dovrebbe passare dagli attuale 70$ al barile ai venturi 48/55$ (sempre ammesso che Cina e India non riescano ad assorbire per intero l’offerta Russa).
Il problema però è che gli States non potranno esportare ciò di cui necessitano internamente per frenare i prezzi, mentre l’Ue, con il nuovo pacchetto di sanzioni sfida ancor di più la Russia, la quale potrebbe decidere (almeno nell’immediato) di vendere altrove lasciando le manifatture e gli automobilisti europei all’asciutto proprio durante il periodo di maggior picco della domanda. Tuttavia, anche non vendere e produrre meno ha i suoi costi, soprattutto sul medio lungo periodo.
L’attuale quadro, per quanto infausto, fotografa la transizione da un mondo unipolare a uno multipolare, dove la dipendenza energetica diventa un’arma buona per farsi la guerra e ribadire le gerarchie di potere. Che serva di lezione a chi per decenni ha rimandato la transizione energetica in favore di energie più chip.
di Claudio Dolci e Roberto Biondini