Capitale d’Italia dell’innovazione e mecca per giovani di talento, ma allo stesso tempo artefice di polarizzazioni e differenze sociali marcate. Milano è un miscuglio di sogni e di contraddizioni, nonché il terreno di coltura ideale per le aspettative e i giudizi dei lombardi, tra poco chiamati ad esprimersi sull’agire politico regionale. Per questo capire chi siano i milanesi, e con essi i lombardi che voteranno il 12 e 13 febbraio venturo, è fondamentale per leggere l’attuale campagna elettorale al di là degli slogan.
Il primo dato da cui partire è che Milano non è la Lombardia, ma almeno un lombardo su tre vive e fa esperienza quotidiana nella città meneghina, da cui può quindi trarre un giudizio tra l’azione del governo locale (quindi Sala) e quello regionale, oggi guidato da Fontana. Su 9.981.554 residenti in Lombardia, ben 1,4 mln infatti vivono nel Comune di Milano e 3,2 mln nel perimetro della Città Metropolitana. Un dato, quello sul rapporto tra periferia e centro, che viene rafforzato dagli spostamenti tra comuni, come evidenzia l’ultimo rapporto Popolazioni e Abitazioni redatto dall’Istat. Se la media italiana del pendolarismo inter-comunale si assesta su un 42,5%, in Lombardia, invece, questo dato sul flusso raggiunge ben il 57,1%. Una difformità rispetto al quadro nazionale che suggerisce un maggior dinamismo della popolazione residente in Lombardia, abituata a lunghe migrazioni dalla periferia al cuore della Regione, con tutto ciò che questo comporta. Sul sito comunale si legge di come “La domanda complessiva di mobilità gravitante su Milano è pari a circa 5,3 milioni di spostamenti al giorno”. Basti pensare che ogni giorno sono 650.000 i veicoli in ingresso a Milano e di questi 400.000 sono automobili, un dato in calo di 50.000 unità rispetto al 2006.
Il costo della vita a Milano: comprare casa è quasi impossibile.
Il fenomeno del pendolarismo riguarda principalmente le fasce più “giovani” della popolazione, coloro che per lavoro o studio trovano solo nei grandi centri ciò che in periferia scarseggia o è assente, e purtroppo, soprattutto ora che il Covid va archiviandosi tra i ricordi spiacevoli, muoversi è più che altro una scelta obbligata dai prezzi del mercato immobiliare meneghino. Milano, infatti, incarna l’esempio lampante di disallineamento tra domanda e offerta, poiché propone ai lavoratori e ai giovani che vorrebbero metter su famiglia in città prezzi al metro quadro da capogiro, i più alti del Bel Paese. Né Roma, né Firenze, che pur sembrano vendere oro al posto di mattoni, riescono ad eguagliare le vette di Milano, là dove comprare un metro quadro di casa costa in media 5.169€ ed affittarlo 20,9€ al mese. Ovviamente si tratta di prezzi da media statistica, stile pollo di Trilussa, perché chi per necessità o desiderio vorrebbe vivere entro i confini della tangenziale è obbligato a percepire stipendi e vantare credenziali che spesso si ereditano soltanto per censo.
Stando ai dati Eurostat 2022, lo stipendio medio italiano si aggira sui 28.500€, pari a 1.550€ al mese, mentre in Lombardia si viene generalmente pagati di più rispetto al resto d’Italia, con un compenso medio annuo di 32.539€. Tuttavia, stando ai dati pubblicati da Tecnocasa e ripresi poi da Repubblica, servono comunque 13,2 annualità di stipendi per poter comprare casa a Milano, una città dove il 60% dei meneghini dichiara meno di 25.000€ all’anno. Ma come e dove vivono coloro che percepiscono meno di 1.550€ al mese? Spesso in appartamenti condivisi, in stanze ricavate dove si può, magari anche solo con un soppalco. Questione di studi e talento, si dirà, ma in realtà le cose non sono proprio così. Stando ai dati dell’anagrafe del Comune, nel Municipio 1 il 60% dei residenti ha più di 40 anni, un rapporto che si mantiene pressoché costante in tutti i Municipi.
Milano città dei giovani? Dipende.
Al di là della fama la popolazione milanese, infatti, è perlopiù composta da quella fascia di popolazione compresa tra i 40 e i 54 anni, una soglia d’età che si abbassa solo col dato degli stranieri, più numerosi tra i 30 e i 39 anni. Di questi, pari a 489.408, il 36,6% proviene dall’area europea, mentre un altro 50% è diviso in modo pressoché uguale tra Asia ed Africa. Facendo la somma i milanesi sotto i 24 anni sono il 21,4% della popolazione, tanti, pochi? Dipende, negli anni della Milano da bere, tra gli anni ’80/’90, il dato era molto più alto, pari rispettivamente a 30,6% Vs 14,9% e 24,4% Vs 18,2%, tuttavia è vero anche che l’età media si è oggi alzata lungo tutto lo stivale mentre la natalità è ai minimi.
Come altre grandi città la distribuzione del reddito, il costo della vita e l’età di Milano seguono un andamento ben noto anche altrove con le medesime distorsioni sul piano politico.


Grandi aziende ed università hanno la loro sede in zone della città, là dove il costo della vita e l’età della popolazione residente è più alta. Tuttavia, senza l’apporto costante di forze lavoro più giovani dall’estero e dal resto delle province circostanti, Milano non potrebbe essere né rappresentare ciò che è oggi.
Il lavoro in Lombardia e a Milano
A fare chiarezza su quest’ultimo punto sono i dati relativi al grado d’istruzione e al tessuto imprenditoriale lombardo. Il primo, fornito sempre dall’Istat, ci dice che a Milano coloro che possiedono un grado d’istruzione terziaria di secondo livello sono in media di più rispetto a quelli presenti nel resto del Paese, il rapporto è 15,7%, contro un 11,2% regionale e un 10,7% nazionale. Dati analoghi si ritrovano anche per quanto riguarda titoli di studio più importanti (come il dottorato, 0,7% a Milano, contro uno 0,4% nazionale e regionale) e più in generale per tutti i gradi di istruzione, seppur con differenze meno accentuate. Sempre in tema di differenze rispetto alla media nazionale, in Lombardia il tasso di occupazione femminile è al 60,4%, mentre nel resto del Paese si assesta al 50,1% e durante la pandemia a Milano hanno perso il lavoro più uomini rispetto alle donne. Dei 20.000 posti di lavoro dispersi dai vari lockdown, infatti, il 75% ha riguardato lavoratori uomini, mentre l’impiego femminile ha retto meglio l’impatto dell’incertezza. Sul tema della parità di genere e dell’opportunità lavorative Milano si colloca come città capofila.
Ad essere interessanti sono inoltre i dati di Assolombarda che incoronano Milano città dell’innovazione. Se in Lombardia la stragrande maggioranza delle aziende è di fatto una micro-impresa e ditta individuale (72,1%), a Milano vi sono invece ben 100 grandi imprese con un fatturato superiore al miliardo di euro. Nel 2020 Milano, con le sue 300.000 imprese, ha sviluppato 151 miliardi di euro di valore aggiunto e la punta di diamante di questo successo è sicuramente il comparto delle Life-Sciences, con il manifatturiero della chimica e farmaceutica a spingere maggiormente i numeri. Poi, come riporta sempre il report di Assolombarda, “Milano si caratterizza per specializzazioni nei servizi di informazione e comunicazione (110 mila addetti), nelle attività professionali scientifiche e tecniche (182mila addetti) e nelle attività finanziarie e assicurative (84 mila addetti).” Va da sé che la grande innovazione tecnologica impone anche un flusso migratorio costante di giovani professionisti, perlopiù single, d’altronde la percentuale di nuclei unipersonali a Milano raggiunge il 42,2% (contro una media nazionale del 35,1%).
Volendo sintetizzare, Milano vuole giovani preparati e disposti a dedicarsi anima e corpo al solo lavoro, anche se poi impone alla stragrande maggioranza di essi un pendolarismo che, da bisogno qual era, è oggi da considerarsi un diritto vero e proprio. D’altro canto, senza trasporti non esisterebbe Milano e per questo ogni modifica e scelta comunale, dall’aumento del biglietto ATM ai tempi e modalità di realizzazione delle linee di trasporto pubblico (metrò in testa), tocca da vicino un bacino di utenti ben maggiore rispetto ai soli meneghini. La politica locale ne è consapevole? In parte sì ed in parte no. Ad esempio, è stata interessante l’idea di limitare lo smog in città, ed ora anche la velocità dei veicoli, puntando molto su biciclette e sulle reti metropolitane, ma chi vive fuori città spesso lo fa perché non si può permettere i prezzi delle abitazioni del centro. Ciò significa che in queste condizioni anche il solo atto di cambiare macchina per superare l’area B rappresenta di per sé un fattore di differenziazione su base reddituale che distingue gli abitanti lombardi in due fasce: C e B. I primi posso permettersi non solo il lusso di cambiare auto sulla base dei diktat del momento, ma anche quello di risiedere nella zona C, mentre i secondi sono quelli confinati al di là della zona B, coloro che lavorano e studiano a Milano e percorrono distanze importanti per via di un disallineamento tra domanda e offerta salariale, prima ancora che di quello imposto dalla speculazione immobiliare. I dati relativi all’introduzione dell’area B lo dimostrano: solo l’1% degli accessi vengono oggi realizzati con veicoli ibridi o elettrici, mentre tutti gli altri riguardano benzina e diesel.
Milano si ritrova sempre di più nella posizione di dover scegliere se da grande vuole diventare come la Silicon Valley, dove programmatori pagati centinai di migliaia di euro all’anno vivono in roulotte perché non possono permettersi una casa, oppure se creare le opportunità affinché si aumenti la permeabilità della città verso l’interno riducendo i cappi (quindi divieti ed obblighi) e realizzando progetti di comunità rivolti alle fasce più giovani e alle famiglie, così da riequilibrare il divario tra chi possiede per diritto naturale e chi potrebbe, se posto nelle condizioni, per diritto positivo (grazie a studi e talento).
di Claudio Dolci