Sull’autonomia continua “l’ammuina”, l’ennesima occasione sprecata.

La riforma sulle autonomie regionali è di nuovo in cima all’agenda politica e a quella mediatica del paese, con una ciclicità ed una puntualità seconda sola al festival di Saneremo. E come quest’ultimo a breve ritornerà là dove è venuta, ovvero nel cassetto del “ci penseremo poi” delle promesse elettorali mai mantenute, pronta da poter essere rispolverata nuovamente in vista delle prossime elezioni come utile arma di distrazione di massa.

Di fronte a questo quadro desolante la novità è racchiusa nella strategia adottata dal neo-governo, il quale non tenta nemmeno più di nascondere le sue intenzioni, approvando, lo scorso 2 febbraio in Consiglio dei Ministri, un testo congeniale solo alla strategia borbonica del “Facite ammuina” (frase della lingua napoletana il cui significato è: “fate confusione”). Un’espressione spesso ricondotta al comando contenuto in un Regolamento della Real Marina del Regno delle Due Sicilie del 1841.

Troppo severo? A giudicare dal testo licenziato no, viste le lacune che esso presenta e gli effetti che rischia di innescare. La parola magica che tutto dovrebbe risolvere e d’incanto far funzionare è LEP (Livello Essenziale nelle Prestazioni), un acronimo coniato nel lontano 2001 e da allora rimasto solo l’ennesimo esempio di un principio astratto e la cui complessità è lungi dall’essere ridotta. In principio i LEP erano stati pensati per identificare i servizi essenziali, e per questo inderogabili, a cui i cittadini devono poter accedere su tutto il territorio italiano, a prescindere dalla ricchezza della Regione e dal comune che li ospita. Ad esempio, l’anagrafe comunale è un LEP: un servizio essenziale e che per questo è presente in quasi ciascuno degli 8.000 comuni italiani (ovviamente con le dovute cautele). Ma è difficile, se non impossibile, anche a livello concettuale definire dei LEP per alcune materie come ambiente, ricerca, ecc.

Si pensi anche al servizio sanitario nazionale, che da tempo cerca di dare sostanza, senza riuscirci, ai LEA (Livelli essenziali di assistenza), cugini dei LEP, e altro tentativo di uniformare il catalogo di prestazioni d’assistenza a disposizione dei cittadini. L’elenco di iniziative per stabilire una sorta di omogeneità nei rapporti tra Stato e cittadini nel paese è lunga, e senza riaprire il tema della gabbie salariali, altro argomento di divisione territoriale mal riuscito, le difficoltà sono e restano oggettive. Questa volta, per colmare la differenza dei LEP, inoltre, stando a quanto riportato dall’Art.8 del provvedimento a firma Calderoli, non è neppure previsto un finanziamento statale per far sì che tutte le Regioni raggiungano, almeno, un’iniziale parità nei servizi erogati. Le stime più caute parlano di almeno 52 miliardi di euro solo per pareggiare le attuali disparità e per di più in base all’art. 5 non si prevede neppure di poter intervenire sulla leva dei tributi. I LEP sarebbero poi indicati e definiti in un DPCM e neanche in una legge dello Stato, quindi la loro “stabilità” sarebbe alquanto precaria e soggetta agli umori politici dei singoli PdC.

Ma al di la delle criticità pratiche il tema presenta un respiro ancora più alto. Senza mai promuovere un’effettiva verifica degli esiti rivolti ai cittadini della riforma costituzionale del 2001 lo Stato ha delegato sempre maggior potere ai presidenti di Regione, i quali hanno utilizzato questo margine di manovra in maniera fin troppo discrezionale (basti pensare, ad esempio in Lombardia, alla svendita del sistema sanitario nazionale pubblico a favore del settore privato) o ai danni della frammentazione e confusione nella catena di decisioni che abbiamo avuto nell’emergenza pandemica. Visti i risultati perché mai si dovrebbe pensare di delegare la gestione di ben 23 materie alle Regione? E chi si dovrebbe opporre a tutto ciò?

Di sicuro a questa proposta non si opporranno i presidenti di Regione che negli ultimi anni, grazie a un maggior potere amministrativo, hanno acquisito anche il potere politico, occupando quello spazio che un tempo era dei partiti tradizionali. I quali, sempre più immersi in uno stato comatoso in termini di peso nell’influenzare nelle scelte, contano pochissimo, per questo gli unici baluardi che potrebbero opporsi con forza a una legge così licenziata sono i Sindaci. Coloro che conoscono davvero i problemi dei territori che amministrano, oltre ad essere interpreti della storia italiana, la quale trova proprio nell’istituzione dei Comuni la sua identità.  

Occorre poi considerare che il cambio di contesto internazionale ci porta semmai a considerare l’esigenza di organismi più grandi, come ad esempio il rafforzamento delle Istituzioni europee per la gestione di alcune tematiche con l’obiettivo di dare risposte imponenti alle sfide globali del presente e del futuro. Dopo tutto nel mondo globalizzato di oggi assistiamo all’affermarsi, da una parte della competizione tra Occidente e Oriente del mondo e dall’altra a quella tra città, soprattutto in termini di attrattività di talenti. Ed è su questi due livelli che bisogna investire in termini di riconoscimento di potere istituzionale.

Occorre una grande riflessione sul modello istituzionale di questo Paese. Il ddl propone di assegnare alle Regioni la facoltà di intervenire su altre 23 materie quando già oggi, discrezionalmente, alcune intervengono su 4 e altre su 6, alimentando solo confusione perenne. Più che concedere “facoltà di intervento” regionale su alcune materie, forse sarebbe opportuno definire perimetri più chiari, valorizzare le autonomie locali e dare strumenti per monitorare la qualità dei servizi e la possibilità di intervenire sulle leve fiscali, anche a livello locale e comunale, per ottenere maggiori e appropriati servizi, poiché i fabbisogni dei cittadini cambiano a seconda dei territori e delle loro specificità. Occorre parlare, e in Italia lo si fa pochissimo, di efficienza della spesa. Su questo bisogna riconoscere che la riflessione riguarda tutto il territorio: negli ultimi 10 anni, ad esempio, è raddoppiata la spesa per le attività assistenziali e contemporaneamente è raddoppiato il numero assoluto di poveri, segnale inequivocabile che evidentemente qualcosa non va già adesso.

Insomma, viste le palesi lacune non solo tecniche ma anche di senso, questo ddl Calderoli porta con sé il sospetto che chi lo abbia approvato sia perfettamente consapevole dell’effetto purante pubblicitario che esso avrebbe avuto su i suoi elettori. L’ennesima occasione mancata: sarebbe il momento di aprire un dibattito serio e d’insieme su tutta l’architettura delle Istituzioni dello Stato, perché le cose non funzionano già adesso. Potremmo partire da un concetto semplice quanto necessario: chiarire “chi decide” e “cosa”, evitando inutili sovrapposizioni e contenziosi tra gli stessi enti pubblici. Una discussione laica e partecipata senza slogan, valutando il merito delle questioni e prendendo decisioni che creino le condizioni per risolvere i problemi più che per crearli.

Intanto lasciamo a ognuno i suoi 15 minuti di celebrità mediatica e con essi il gusto di urlare, di rivendicare, di sdegnarsi e di cavalcare l’ormai costante campagna elettorale. Insomma, “L’ammuina” all’italiana.

di Francesco Caroli

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