Tra poche ore il silenzio stampa accompagnerà i lombardi alle urne, dopo una campagna elettorale senza luci né clamore, senza scandali né colpi di scena. La politica è rimasta in quel piattume ove si crogiola inerme da tempo, mandando avanti, come ogni veterano di lungo corso che si rispetti, un esercito di volti nuovi e buoni per prendere cannonate, nella speranza che nessuno si accorga che dietro di essi si nascondono in realtà i nomi di sempre: Moratti, Majorino e Fontana. Inutile ripercorrere le carriere dei tre candidati visto che chi ha più di 45 anni le conosce quasi a memoria, né ha senso soffermarsi sull’incapacità dei partiti di uscire dai soliti schemi, altro tempo perso invano, però ci sono dei dettagli che vale la pena cogliere.
Ormai trincerati da tempo in comodi ruoli apicali, i tre contendenti per la guida del Pirellone hanno dovuto inventarsi il civismo 2.0, che altro non è se non un sotterfugio per recuperare un minimo di credibilità elettorale attraverso qualcuno che almeno conosca qualche centro città della Lombardia e possa scendere in piazza senza diventare una pala eolica che funziona a fischi e pernacchie. Il casting dei volti nuovi ha quindi seguito i rigorosi canoni dell’estetica politica e della narrazione comune del momento: successo professionale, indipendenza, bellezza, parità di genere e in ultimo esperienza, da non sottovalutare mai, soprattutto nelle successive fasi di selezione.
Date le carte si è lanciata la truppa allo sbaraglio, la quale è andata alla bisogna a rispondere ai lamenti di chi per anni ha visto il nulla o anche meno, ovvero i lombardi. Nulla di nuovo, fatta eccezione per la reticenza nell’ammettere ovvie verità. “A quelli del Pd gli facciamo il culo”, mormoreggiano gli esponenti di centro, da tempo intenti in un’opera di occupazione del Pd, mentre dal lato di quest’ultimo a prevalere è il “vacci a capire qualcosa” riferito alla scelta di Majorino, un nome imposto dall’alto e accettato col capo chino da chi ha perso la volontà o la voglia di dire la sua. Scaramucce elettorali, si dirà, ma questo è solo l’inizio, visto che scavando più a fondo gli insulti si trasformano in incoerenze dalle dimensioni totemiche.
Dietro le quinte, infatti, è il tema della parità di genere a gettare maggiore scompiglio, tramutandosi nel suo opposto, finalmente liberato dalla maschera della propaganda in favore di quella del pragmatismo; altro termine politico rispolverato negli ultimi anni senza capirne davvero il senso. E allora tra i maschietti c’è chi dice “ma quella di politica non sa, né capisce nulla”, sollevando così il dubbio sul perché si sia candidata, mentre le donne pare abbiano capito che l’unico modo per salire la china politica è dietro a un uomo, alla faccia del femminismo da talk show. “Meglio portare avanti un uomo che abbia una sensibilità nei confronti delle donne e che faccia cambiare idea anche agli altri”. Una duplice cannonata sparata proprio tra le mura domestiche di quei partiti che hanno fatto della parità di genere il proprio vessillo identitario, ovviamente in pubblico, perché nel dietro le quinte la musica è questa, se non più dark.
E quando dal piano delle regionali si passa a quello delle nazionali, col congresso del Pd, la reticenza di taluni esponenti si trasforma in forme di mutismo istantaneo. “Passiamo oltre?” chiedono con garbo e innocenza. D’altronde nella politica d’oggi la prima regola è mai schierarsi se non si è sicuri di avere le spalle coperte, sai mai che il vento cambi direzione e infatti a denti stretti il nome che esce è quello di “Bonaccini”. Il caso di Maran è poi forse l’esempio più emblematico di questo continuo mutamento di assetti politico-strategici-arrivisti. Lui, il sacrificato sull’altare in una lotta di potere senza primarie, tanto lo statuto se lo leggono in pochi, e futura promessa di una politica in cui nessuno vuole farsi da parte: i giovani conteranno qualcosa da vecchi, ora diamo spazio alle prime leve della terza età.
In tutto questo spettacolo, che a chiamarlo tale gli si fa un complimento, coloro che restano col cerino in mano sono i lombardi. Tutti i partiti, infatti, promettono le stesse, identiche cose, senza neppure sforzarsi di capire se non vi siano altri problemi che impattano negativamente sulla Regione e sulla qualità di vita dei lombardi. Leggendo i programmi pare che questi ultimi vogliano solo muoversi più velocemente, curarsi quando serve, abitare in un loculo a prezzo calmierato e procreare per il bene del Paese e delle loro pensioni. Richieste legittime, almeno in parte e soprattutto non a Milano, ma siamo davvero sicuri che non vi sia dell’altro? Possibile che tutti e tre i candidati di punta abbiano scommesso sulle stesse caselle della roulette? Ebbene sì. Qui giacciono esanimi la fantasia e la curiosità, ricordo vivo solo in quel civismo da cannone, buono per le elezioni e per raccontare una bella storia per chi ancora crede alle favole.
di Claudio Dolci e Edoardo Cagli