P: Allora, l’avete presa la batosta! Te l’avevo detto che con questo sistema pseudo-maggioritario il Terzo Polo andava a sbattere!
M: E’ vero. Proprio ora che gli elettori si sono abituati ad eleggere sindaci o i cosiddetti “governatori” … Mi pare che siano sempre di più quelli convinti che senza maggioritario non si garantisce la stabilità dei governi.
P: Lunga vita al governo delle destre …
M: La necessità di batterli ci porterà a trovare un modo di stare insieme, a formulare una proposta alla maggioranza degli elettori. È la democrazia dell’alternanza. Ora sono loro a governare, poi se saremo capaci di intercettare le aspettative della maggioranza, toccherà a noi.
P: Di sicuro non a “noi” Terzo polo. Semmai a “noi” PD e centro-sinistra…”
M: Ma l’importante è un sistema bipolare, non bipartitico. Non è obbligatorio essere tutti dentro uno stesso partito. Possiamo essere di centro, un centro liberaldemocratico, e allearci con il PD, facendo un accordo per governare. Un accordo preventivo, però, trasparente, di fronte all’opinione pubblica.
P: Una specie di Ulivo, insomma. Peccato che i tempi non siano quelli del 2006, dove Prodi vinse ma non durò molto perché l’alleanza si sfasciò dopo pochi mesi. Per la defezione dell’UDEUR, un piccolo partito di centro, se non sbaglio… Ora le cose sono diverse. Il mondo è diverso da allora.
M: Appunto. Bisogna riconoscere che i partiti nel nostro tempo devono svolgere principalmente la funzione di reclutamento, selezione, promozione dei programmi e delle persone che devono candidarsi e competere alle elezioni. Si tratta di aggregare su proposte concrete, e su queste trovare tutti quelli che ci stanno, senza preclusioni. Credo che spingere le forze politiche a fare proposte che raccolgano i voti necessari per formare una maggioranza prima del voto migliori la qualità della politica, la allontani dalle “speranze irrealizzabili”.
P: Resto dell’idea che sia un errore prescindere dalla forma-partito. L’esperienza del PD, ma anche dei FdI e della Lega, ben radicati sul territorio, dimostra che un partito forte è il nucleo indispensabile attorno al quale costruire un’alleanza. Ma sarebbe più logico se ci fosse una legge proporzionale…
M: Bisogna intendersi su cosa significa partito forte. Io, di un partito, preferirei misurare la capacità di raggiungere i risultati che si propone piuttosto che la dimensione, l’ampiezza della rete e quindi della burocrazia e delle risorse necessarie alla propria riproduzione,
P: Allora, scusa, ma non trovo un motivo per inseguire il mito della terza via, o di un centro che con questa legge elettorale è destinato solo a perdere… o a far perdere la voglia di votare a quel 40-50 per cento di elettori che ancora hanno voglia di andare alle urne. Solo con un sistema proporzionale ognuno potrebbe essere libero di votare secondo le proprie inclinazioni, quindi avere una motivazione per uscire di casa e andare a votare. Anche perché le alleanze si farebbero dopo il voto, lasciando più margine di manovra agli eletti.
M: Allora riflettiamo un attimo sulla competizione politica. Nel sistema proporzionale ogni attore è portato a raccogliere il maggior numero possibile di consensi su tematiche che distinguono, differenziano. Questo porta a separare soprattutto i partiti che competono sugli elettori a loro più vicini. Le campagne elettorali quindi dividono, diventano una corsa ad alimentare “speranze irragionevoli”, a chi la spara più grossa indipendentemente dalla realizzabilità delle promesse. La formazione della maggioranza deve avvenire dopo qualche settimana in Parlamento tra forze che se ne sono dette di tutti i colori spinte dalla logica stessa della competizione. E questo a mio parere rende anche meno comprensibile l’accordo tra posizioni diverse, tutto diventa inciucio, cedimento, compromesso al ribasso.
P: Parlare di speranze irragionevoli allontana le persone dalla politica. Bisogna lasciare più spazio agli ideali come dici tu “irrazionali”, proprio perché gli esseri umani non vivono di solo pane e ragione. Contano le idee di ciascuno, la necessità quindi di rappresentanza anche delle minoranze, che possono “ragionevolmente” nutrire la speranza che una parte delle loro idee partecipino al potere, alla formazione di un governo di coalizione. Meglio realizzare un’idea anche piccola che nessuna.
M: Ma una logica maggioritaria impone invece agli attori in competizione di raccogliere già in campagna elettorale, in modo trasparente, tra gli elettori, la maggioranza o la quantità di voti necessari per formare la maggioranza. La mediazione per rendere ragionevoli le speranze avviene prima in modo trasparente. Secondo me questo migliora la politica, certo le toglie le utopie che alimentano quelle che chiamo le speranze irragionevoli, le promesse irrealizzabili! La gente non vuole più saperne di vecchi riti che si consumano dietro le quinte. La tv, il sistema mediatico, ha acceso i riflettori sui retroscena! Un voto per uno schieramento o per l’altro è più trasparente, responsabilizza. E dà alle persone la facoltà di scelta del leader, di quello schieramento.
P: Ovviamente non sono d’accordo. I partiti nel proporzionale offrono agli elettori una proposta politica ideale, su cui ciascuno può trovare la sua declinazione. Prevale l’idea piuttosto che la leadership del maggioritario (inevitabile, se no per chi dovrebbero votare?). Ma questa è la personalizzazione della politica, quella che Berlusconi con le sue tv ha imposto all’opinione pubblica nel 1994, dopo il cataclisma di Tangentopoli, distruggendo qualsiasi ideale politico proprio attaccando i “comunisti” (cioè chiunque fosse contrario a lui) e i politici “di professione”.
M: Non la vedo così: personalizzazione e leaderizzazione della politica sono fenomeni che hanno radici profonde nelle trasformazioni epocali che le tecnologie della comunicazione, a partire dalla tv, hanno determinato. Per me Berlusconi è conseguenza, non causa, di queste grandi trasformazioni. Il disastro lo hanno fatto quelli che – alludo a Dc e suoi alleati, e PCI – non hanno capito la potenza della tv, che hanno cercato di mantenere le briglie stataliste al fenomeno che a un certo punto è diventato non controllabile. Poi certo, un pezzo della politica che si sentiva escluso dall’intesa consociativa tra Dc e PCI, cioè il PSI, ha cercato di utilizzare lo spazio apertosi. Ma questo ci allontana dal nocciolo della nostra discussione. In sostanza credo che i limiti del maggioritario italiano derivino dal fatto che è incompiuto. Tutti i tentativi di adeguare la seconda parte della Costituzione non sono andati in porto mentre con l’elezione dei sindaci e delle Regioni gli elettori hanno metabolizzato il voto maggioritario. E le forme organizzative dei partiti non si sono adeguate al nuovo assetto anzi sono sprofondate nella crisi profonda con il taglio dei finanziamenti pubblici.
P: Altro errore, il “sindaco d’Italia”! Un Paese, una Nazione, se preferisci, non è un Comune. Ottomila e più comuni fanno qualcosa di diverso e più complesso. Non si può governare uno Stato con sessanta milioni di abitanti, complesso come l’Italia, come se fosse anche solo una grande città. Sono livelli diversi di complessità, e pensare di risolvere tutto con un leader è una pia illusione. Come aver dato retta a Berlusconi, pensando, come lui, che un Paese fosse come un’azienda. Governare significa fare politica, mediare, trovare compromessi, è una cosa faticosa se si vuole preservare la democrazia. Con un uomo solo al comando, la dittatura è dietro l’angolo.
M: Nessuno vuole un uomo solo al comando! Ma qualcosa che tutti i grandi Paesi possiedono, dalla Francia alla Germania, per restare in Europa. Stiamo parlando di trovare dei meccanismi che stabilizzino l’esecutivo e lo mettano al riparo dai capricci dei partiti più piccoli e dalle fibrillazioni di un sistema mediatico che, alla caccia della novità per fare audience, ha fatto diventare il sondaggio settimanale il pacemaker della politica.
P: Resta il fatto che per avere una democrazia forte devi coinvolgere le persone, dare loro l’impressione di governare insieme. La sensazione di contare qualcosa, non che il loro voto sia inutile. Di qui, con il proporzionale puro, la possibilità di dire “io delego qualcuno che la pensa esattamente come me, poi lui deciderà per il meglio a chi allearsi per governare o stare all’opposizione”. È forse il miglior sistema per impedire l’astensionismo, la fuga dalle urne che è l’anticamera del disimpegno totale, delle condizioni ideali per accettare una dittatura.
M: Io credo che la sensazione di contare la si possa dare coinvolgendo gli elettori nella selezione dei candidati, rendendo cioè quello che erroneamente chiamiamo primarie un elemento “costitutivo” delle organizzazioni politiche, dei partiti. Candidati legittimati dalla partecipazione degli elettori e non dalla cooptazione delle oligarchie consolidate! Quindi eletti che devono rispondere agli elettori e non alla filiera della cooptazione.
P: Non sono convinto. Non credo che l’Italia o gli altri Paesi occidentali possano permettersi di dividersi 50 e 50, con due schieramenti contrapposti, bianco-nero, sì o no. Se fai di ogni elezione un referendum e pretendi di governare con il 51 per cento dei voti, il 49 per cento prima o poi ti dirà che hai vinto per i “brogli”. Lo ha fatto Berlusconi con Prodi nel 2006, una parola mai sentita prima di allora in Italia, e poi lo hanno fatto Trump nel 2020 e Bolsonaro nei mesi scorsi. Con le conseguenze che sai…
M: Vuoi dire che non è democrazia governare con il 51 per cento o con maggioranze risicate? Eppure, è la regola-base, e la tendenza di tutti i Paesi sviluppati. Il nodo è che maggioranza e minoranza governano insieme con ruoli separati e anche conflittuali. Ma deve essere un conflitto basato sul riconoscimento reciproco. Chi non vota vuol dire che è indifferente, e accetta in qualche modo il responso delle urne, qualunque esso sia. Perché preoccuparsi?
P: Bah! Mi pare che torniamo al punto di partenza… Magari cerchiamo di capire perché il 60 per cento degli elettori in Lombardia non ha votato. Vuoi?
La Redazione