“Il potere dei cittadini contro la povertà.” Così il claim di Oxfam France. Sul suo sito web, largo spazio è dato alle disuguaglianze della République, alla ricerca di volontari disposti a darsi da fare nelle banlieue parigine, e alle manifestazioni contro la riforma delle pensioni, vista come l’ennesimo colpo per impoverire i francesi. E, appunto, accrescere le disuguaglianze nella società. In Italia, sempre per trarre insegnamenti dalla differenza con la Francia, Oxfam non ha un claim, è meno schierata, dà spazio al terremoto in Turchia e Siria, e agli interventi umanitari nei paesi africani colpiti dalla siccità. In Italia, come nel resto del mondo, la priorità è la charity. In Francia, la priorità è tutta interna, come a dire: la povertà ce l’abbiamo in casa.
Il caso Oxfam è lo specchio di un’opinione pubblica sempre più polarizzata e “in collera”, come ormai si autodefinisce nei suoi cortei. Una collera che negli ultimi giorni ha visto fino a tre milioni e mezzo di persone sfilare in tutte le città della Francia, Parigi in testa. Sfilano tutti, dai pensionati agli operai, agli studenti, agli cheminots, i ferrovieri fin qui iper-protetti e coccolati da infiniti privilegi, fino ai piloti e ai portuali, che stanno mettendo in crisi i trasporti in tutto il Paese. Ogni martedì e sabato ormai ci sono manifestazioni che culminano in scontri di piazza (pane per i denti dei black bloc), con una polizia abituata a usare le maniere forti, certa di un’assoluta impunità. Il governo ha rinunciato a contarsi in parlamento per approvare la sua contestata riforma delle pensioni (si tratta di un governo di minoranza) e con un espediente giuridico consentito dalla Costituzione ha saltato il voto dei rappresentanti del popolo per approvare la legge con decreto del presidente.
Ancora una volta, al di là del merito del provvedimento, Macron si è distinto per essere il tecnocrate insensibile che forse è. Si è definitivamente messo contro il 70 per cento dei francesi contrari alla riforma, perché “andava fatta comunque per il bene della Francia”, e ha forse compromesso anche il suo traballante partito, nonostante il repentino cambio del nome, da “République en Marche” (LREM) a “Renaissance” alle ultime elezioni. E il disastro può trascinare con sé la Francia e perfino la UE. Perché siamo arrivati a questo punto?
La situazione francese, con la crisi forse irreversibile del suo presidente, viene da lontano. Per comprenderla, occorre sommare errori interni (gilet gialli, le pensioni) e scivoloni internazionali (la NATO in stato di “morte cerebrale”), la crisi mondiale dei sistemi democratici basati sulla rappresentanza parlamentare, e la conseguente affermazione dei populismi fino al biennio della pandemia, la successiva crisi economica (sempre in Occidente) e l’inflazione gonfiata dalla guerra in Ucraina e dalla riluttante adesione della Francia alle sanzioni contro la Russia, che ha reso il nucleare l’unica risorsa del Paese su cui puntare per il futuro.
Poi ci sono il carattere e la formazione di Macron, un banchiere tecnocrate prestato alla politica, innamorato dell’Europa unita, a condizione che fosse la Francia a guidarla. Fino a un certo punto gli è andata bene, poi gli eventi degli ultimi due anni hanno fatto rivivere l’appellativo di “presidente dei ricchi”, che si era guadagnato nel 2018 quando aveva abrogato la tassa sui patrimoni finanziari. Le forti disuguaglianze di cui la società francese è permeata da anni si sono rese più visibili con la pandemia, e con la successiva crisi economica, e il ceto medio borghese si è sentito colpito in modo intollerabile per quei due anni in più di lavoro della nuova legge sulle pensioni.

Il carattere e la formazione di un uomo sono un imprinting formidabile, che viene a galla nei momenti di crisi. Ecco perché di fronte alla contestazione popolare Macron si rinchiude nel suo Stato centralista, burocratico, retto da mandarini indifferenti ai travagli delle classi sociali. E si affida a ministri dell’Interno rigidi protettori di un corpo di polizia sempre più violento. Poi va in televisione a rivendicare che lui agisce per il bene della Francia, per garantire i mercati con le necessarie “riforme” neoliberiste.
Secondo l’economista Pierre Khalfa, proprio qui sta il problema, perché con Macron continua l’inversione di significato del termine “fare le riforme”, ora francamente inaccettabile dopo i disastri socioeconomici che ha prodotto nel mondo e in Francia. Una volta, essere riformisti significava volere il socialismo, o un generico cambiamento, non attraverso una rivoluzione violenta ma per mezzo di riforme progressive della società. Oggi significa smantellare lo stato sociale e cedere alla visione neoliberista, annullare tutte le conquiste “riformiste” sui diritti dei lavoratori e sul ruolo dello Stato nell’economia. Peccato che proprio il ruolo dello Stato sia stato improvvisamente rianimato per sostenere le banche durante la crisi dei mutui subprime nel 2008 negli USA e poi per sostenere le industrie nazionali nella pandemia nel biennio 2020-21. Come a dire, no all’odiato “comunismo”, cioè allo Stato invadente, ma quando serve ai banchieri e a salvare il sistema, evviva lo Stato!
Il politologo Remi Lefebvre sostiene da parte sua che “Emmanuel Macron era una risposta possibile alla crisi democratica nel 2017. Da allora la crisi si è solo approfondita. Il presidenzialismo senza legittimità al servizio del mercato si è radicalizzato.” Secondo Le Monde, l’inflessibilità del presidente ormai “preoccupa i suoi stessi uomini”, al punto che “in tanti sono allarmati dall’esercizio di un potere ritenuto troppo solitario, che tarda a prendere la misura della crisi.”
Il risultato di questa fine delle illusioni è che Macron porta con sé nella polvere la proposta liberal-democratica di LREM, che è rimasta una élite mai superiore al 20-25 per cento dell’elettorato. Dopo aver provocato il tracollo delle sinistre nel 2017 con la sua offerta di un partito nuovo, centrista ed europeista, Macron si è spostato a destra forse sperando nel crollo di Marine Le Pen ed Eric Zemmour, i controversi leader della destra più estrema. Che non è detto ci sarà alle elezioni europee del 2024 o alle presidenziali del 2027. Intanto, di fronte alla polarizzazione della società, fomentata dalle disuguaglianze, come negli USA, come in Italia, anche la società francese torna a confrontare destra e sinistra, e rifiuta il centro.

Ma la parabola di Macron non è solo la fine dell’illusione tecno-centrista. E’ anche la fine di un sogno, quello di un leader davvero europeo, che avrebbe potuto rilanciare l’integrazione europea, e invece si chiude in uno splendido isolamento in una UE governata (dal 2024) da popolari e conservatori, subordinata agli interessi americani e inquadrata nelle logiche bipolari della NATO. L’unico statista che avrebbe potuto dare una dignità alla UE della difesa comune e della politica estera, del bilancio comune e dell’integrazione bancaria e fiscale, rischia di soccombere nella polvere della seconda Bastiglia e sotto i lacrimogeni delle squadre speciali della Police Nationale, sotto i contraccolpi della guerra russo-ucraina e della polarizzazione Oriente-Occidente. A questo punto, chi altri potrà rianimare il sogno europeo?
di Raffaele Raja