La domanda, semi-seria o presuntuosa che sia, richiederebbe argomentazioni e strumenti di cui è evidente io non possa disporre. Negli studi sulla personalità di politici, personaggi storici o mitologici, si sono cimentati in tanti, a partire dal vecchio Sigmund Freud. Tali studi richiedono una profonda conoscenza della biografia del personaggio di cui tentare una diagnosi, oltre ad un’esplorazione minuziosa di archivi, scritti, lettere e diari.
Io qui, con reale modestia, mi limito a porre una domanda alla quale tento solo di dare una risposta provvisoria.
Intanto delimitiamo il campo. Parliamo dei politici italiani, dal secondo dopoguerra ad oggi, che non rientrano nelle due grandi famiglie che hanno caratterizzato (e in larga misura monopolizzato) la scena politica, quella cioè dei democristiani e la contrapposta famiglia dei comunisti (e dei post-comunisti). Escludiamo anche quella, pur marginale, dei fascisti (e post-fascisti). Quel che resta è certamente un panorama alquanto vario ed eterogeneo, che accomuna liberali, radicali, repubblicani, socialdemocratici e socialisti (almeno nel dopo Ungheria). Con incroci e contaminazioni diverse: socialisti radicali, lib-lab, fino ai recentissimi liberaldemocratici alla Calenda.
E, per aiutarci a visualizzare i personaggi, pensiamo alla generazione dei La Malfa, Nenni, Saragat, Malagodi, a quella di Pannella, Zanone e Craxi, fino alla Bonino, a Rutelli e, più recentemente a Renzi e, per l’appunto, a Calenda.
C’è qualche tratto che li accomuna? Questa è la domanda.
Proviamo, intanto, a procedere per esclusione. Intanto potremmo dire che a quasi tutti loro è mancata – e manca tuttora – la pazienza sorniona dei democristiani, la loro capacità (Andreotti ne è stato il campione insuperato) di prendere tempo, di contare fino a dieci, di lasciare decantare i problemi (Andretti non era quello che diceva che, a lasciarli decantare, in molti casi i problemi si levavano di torno da soli?).
Ai politici di area – lo diciamo in senso molto ampio e forse improprio – liberaldemocratica, è mancato (e manca tuttora) certamente anche il senso di superiorità dei comunisti, convinti che in loro si materializzasse il senso della storia.
Cosa resta loro? Molta impazienza, senz’altro, e parecchia arroganza (Craxi e Renzi sono stati il più delle volte accostati soprattutto dal punto di vista caratteriale), oltre ad una buona dose di aggressività polemica (in questo Calenda sta mostrando un tratto che lo distingue dall’insieme dei suoi interlocutori di giornata). Tali caratteristiche dell’eloquio centrista sono forse conseguenza della posizione politica che esso esprime (quindi di minoranza rispetto a destra e sinistra), oppure rappresentano uno dei tanti frutti avvelenati del nostro tempo? Per essere più chiari: i centristi alzano i toni perché sentono di esser privi di una narrazione “affascinante” (di natura strettamente ideologica) capace di scaldare gli animi degli elettori, oppure si adeguano (e al ribasso) alla mediatizzazione della politica d’oggi?
C’è in loro forse anche un certo tratto di superiorità intellettuale (non nel senso didascalico-professorale dei tanti intellettuali di area comunista dell’epoca togliattiana), che deriva loro dalla convinzione di avere, rispetto alla destra e alla sinistra (per non parlare dei populisti alla 5stelle), un saldo pragmatismo e un forte senso della realtà, soprattutto sui temi dell’economia (in tal senso, forse, in questo gruppo potrebbero venire inclusi, un po’ impropriamente, anche i tecnocrati alla Monti o Draghi). Tuttavia, proprio questo senso della realtà pone un altro quesito: non è forse vero che nei confronti centristi ci si aspetti meno ingenuità e per questo si sia più inclini a condannare loro errori che ad altri gruppi parlamentari verrebbero invece condonati? Si pensi ad esempio al caso di Renzi e quell’onta che tuttora lo ammanta rispetto a quella che invece ha avvolto Berlusconi. Ed il medesimo paragone si potrebbe fare tra Craxi ed Andreotti.
Che poi queste caratteristiche, qui tagliate con l’accetta e dimentiche delle tante eccezioni – probabilmente in molti casi caratterialmente inevitabili e politicamente indispensabili per far sentire la propria voce a cospetto dei giganti monopolizzatori della scena – siano tra i motivi dello scarso, o comunque limitato (anche nel tempo), successo e popolarità della maggior parte di loro, è questione che richiederebbe ben altre analisi. È certo, tuttavia, che successo e popolarità non sono mancati al Pannella dei referendum, al Craxi premier della crescita dei ruggenti anni ‘80 o, buon ultimo, al Renzi del 41%. Successo e popolarità, ahimè il più delle volte, perduti se non dissipati in un attimo (da “Mani pulite” al referendum istituzionale).
Questo per dire che, se si ha a cuore le sorti dell’idea liberaldemocratica per il futuro politico del nostro Paese, forse la considerazione della personalità dei leader non è un qualche cosa di accessorio e pertanto trascurabile. Visto che arroganza e aggressività sembrano non pagare, c’è un’altra strada, che non sia quella impersonata dalle chiese politiche o dai populisti e demagoghi di turno? Risposte a queste domande sono naturalmente ben gradite.
Milano, 22 aprile 2023
di Dario Forti