AAA: politici cercansi

Strano a dirsi, ma nell’epoca d’oro del leaderismo, di quei singoli che trascinano un comitato elettorale fatto a loro immagine e somiglianza verso la conquista della Presidenza del Consiglio, a mancare non sono più solo i voti degli elettori, ma i leader stessi, presunti o tali che siano. Nessuno, infatti, tra i politici di spicco del momento pare esimersi da rovinosi scivoloni – termine, quest’ultimo, coniato dalla Premier Meloni – che neppure l’ultimo dei gregari commetterebbe.

Ad esempio, Renzi e Calenda, due leader che oggi vantano più follower che elettori, sono riusciti nell’impresa di demolire il Terzo Polo nell’arco di una sola settimana, esibendo una delle peggiori litigate pubbliche dai tempi di Morgan e Bugo (lascio a voi la scelta dei ruoli). Mancavano giusto le foto dei paparazzi e le allusioni a Rolex e alle ville romane per rubare la scena alla separazione dell’anno, quella tra Totti e la Blasi. Tra l’altro, e a favore di quest’ultimi, tra Calenda e Renzi non c’è mai stato un sincero coinvolgimento, ma solo affari. I due hanno infatti gestito i rispettivi comitati elettorali come avrebbero fatto due separati in casa che si rivolgono la parola solo tramite anonimi post-it attaccati sul frigo. “Stirami la camicia che domani vado a dirigere il Riformista”, seguito da “Dove spendi i soldi dell’affitto? Qui dobbiamo fare un partito, il mio”.

Il risultato di questo dialogo tra sordi è un remake, che si sa essere una brutta copia dell’originale, di un film già visto alle politiche del 2022, quando Calenda liquidò Letta e la Bonino per via di Bonelli e Fratoianni, o almeno così si sosteneva anche dalle parti di Italia Viva, mentre ora la versione pare un’altra. Ed oggi, per la legge del contrappasso, è Calenda stesso a doversi unire proprio al gruppo misto guidato dal verde Bonelli. Un’inversione dei ruoli, questa, che ricorda i tempi i cui Calenda twittava compulsivamente contro Renzi per poi chiedergli di stringere un’alleanza politica in vista delle elezioni. Errare è umano, perseverare è diabolico. La morale della parabola dei leader di centro? Del Terzo Polo sono rimasti solo gli elettori e i comitati territoriali, spiazzati come pochi dalla foga di un amore che di fatto non c’è mai stato.

Poteva andare peggio? A giudicare da quel che è accaduto e sta accadendo nella maggioranza, la risposta è sì. Già, perché qui, tra chi guida il Paese, le fratture non si sono verificate solo tra partiti diversi, ma anche all’interno del gruppo dei ministri e degli uomini chiave del potere. Fitto, ad esempio, ha decretato la fine del Pnrr, salvo poi ammettere, sotto imbeccata della Premier, di aver mal interpretato le carte di quel piano che lui stesso deve portare a termine. Ma peggio di lui ha fatto La Russa, che per ribadire come FdI sia un partito diverso dall’MSI, il 25 Aprile ha fatto tappa a Praga per omaggiare il monumento a Jan Palach. Un tempismo, quello del Presidente del Senato, che però cozza con la lettera che Giorgia Meloni aveva inviato al Corriere il giorno prima. Ma lo Scivolone, quello con la buccia di banana, l’ha fatto l’intera maggioranza con il voto sul DEF. Pochi sarebbero riusciti a realizzare un’impresa simile: far affossare un decreto della Presidenza del Consiglio proprio durante la visita della Premier a Londra, nella patria dei mercati del Vecchio Continente. Eppure ci sono riusciti, e tra l’altro grazie all’aiuto dei numerosi parlamentari di destra che intenti a difendere il Made in Italy si trovavano in missione proprio quando l’Italia chiamò.

Un autogoal per la maggioranza, che però l’opposizione ha subito contraccambiato con vero fair play, esibendo un linguaggio vicino ai temi del ceto più povero di questo Paese, come armocromia. Finalmente la sinistra è tornata alle origini, con un’intervista su Vogue; lo stesso Renzi, ai tempi della guida del PD, aveva scelto Vanity Fair e Rolling Stone, quindi Schlein ha solo preso il testimone. E poi a chi importa più della posizione del Pd sulla guerra in Ucraina, sul termovalorizzatore di Roma o sull’utero in affitto? Con quell’intervista a Vogue la leadership del Pd è ora salva e salda, nelle mani di chi non si sa, diciamo. Ce n’è abbastanza per fare una richiesta agli aspiranti capi bastone: cercasi leader con un minimo di voglia ed esperienza per guidare un partito, astenersi perditempo.

di Claudio Dolci

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